Eschilo immortale
Sicania, 26 maggio 1948
In un'orgia di colori smaglianti, nella gloria del sole, l’antica cavea del quinto secolo avanti Cristo, tra il tempio di Apollo Temenite e l'Ara di Ierone, è parsa come l'enorme tavolozza di un pittore surrealista. Come se ventiquattro secoli non fossero trascorsi, come se la polvere del tempo, sotto la sua uniforme patina grigia, non avesse deformato uomini e cose, una folla enorme si è ritrovata seduta sulle stesse gradinate che hanno ospitato generazioni millenarie, con l'anima sospesa agli occhi fissi sull'arena scenica popolata da vivi fantasmi.
L’Agamennone, irrigidito nella sua immobilità tragica, sfrondato da qualsiasi accenno di danza, che potesse rompere l'unità drammatica dei cori, con la sua vicenda dura e inesorabile, ha incatenato l'attenzione, religiosamente silenziosa, di un popolo che, trasportato in un mondo di dèi, di eroi e di uomini di statura formidabile, su scene gigantesche, si è sentito piccino ed atterrito.
Un fremito di orrore, come un freddo vento di bufera, è passato su tutti quando il grido di Agamennone, colpito a morte, ha lacerato il silenzio opprimente; i sensi hanno percepito nitidamente il lugubre tinnire della scure di ferro, imbrattata di sangue, sui marmi della reggia degli Atridi. L'atmosfera tragicamente greve ed intensamente drammatica, creata dal vaticinio di Cassandra, non si è alleggerita con la fine del primo episodio, chè le parole dell'amante infedele di Apollo e le note tristi di una musica primitiva erano ancora sospese, nell'aria, come nubi temporalesche; e, a profetico accenno di nuove sventure, le bende divine della vergine innocente, rosseggiavano sinistramente sui gradini della casa maledetta, come grandi chiazze di sangue che gridavano vendetta.
La trilogia eschilea si è conclusa con le Coefore e le Eumenidi. Il secondo episodio ha segnato il massimo dell'intensità drammatica della vicenda; l’eterno tema della ereditarietà della colpa ha il suo pieno sviluppo con il matricidio di Oreste; chi uccide sarà ucciso. Clitennestra ha dato la vita a chi le darà la morte; a chi, cioè, strumento passivo nelle mani di Apollo, chiederà alla madre che si lasci uccidere, perchè si compia il gran rito della vendetta e della giustizia.
L'urlo di Egisto morente è ancora nelle orecchie di tutti; ed un palpito di compassione accompagna, nel suo ultimo cammino, la madre sventurata cui pena maggiore non poteva toccare per il suo delitto: essere uccisa da suo figlio, dal frutto delle sue viscere, eretto a vendicatore e giustiziere.
L'attesa spasmodica del pubblico fortemente impressionato dalla tragedia e preparato a qualcosa di luttuosamente inevitabile, dal volteggiare diabolico delle Erinni attorno al matricida, si è placata improvvisamente col giudizio di un tribunale in cui gli elementi divini ed umani si fondono armonicamente in una sentenza di perdono che assolve l'ultimo erede di una colpa atavica.
Ancora una volta, l'umanità rivive il suo travaglio eterno attraverso la tragedia attica che porta il sigillo del genio di Eschilo. La traduzione di Manara Valgimigli non ha tolto nulla alla solennità impetuosa dei versi greci, trasformati in un linguaggio più aderente alla nostra sensibilità moderna. Il battito possente del tragico d'Eleusi, come le martellate di Vulcano sull'incudine gigantesca dell'officina etnea, modella le parole, le scene, i caratteri.
Il dramma tragico domina incontrastato il tempo, insuperabile e incorruttibile, pur attraverso le diverse interpretazioni e le diverse espressioni linguistiche. Una causa emotiva particolare della tragedia, nella rappresentazione al teatro greco della Pentapoli, è da ricercarsi nell'esilio volontario dell'eroe di Platea, di Salamina, di Maratona e dell'Artemisio, dopo il trionfo di Sofocle.
In questa terra che conobbe il suo travaglio nostalgico, in questa conchiglia del sole, che lo vide cupo e solitario, stridente contrasto nella gloria di Jerone, in quest'isola luminosa che lui scelse a custodire le sue spoglie mortali, Eschilo ritorna a rinnovare i fasti e le glorie delle antiche Olimpiadi. Seguendo la valle dell'Anapo lento, rientrando a Gela, da Siracusa, un senso di religioso stupore invase l'animo di Dionisio, giunto alla fine di uno spettacolo grandioso.
Non altrimenti che l'animo di un popolo incastonato nella fossa profonda del Temenite, dinanzi alla sfilata di fiaccole che ora, come allora, hanno costellato di luci sanguigne il cielo impallidito del crepuscolo, tra il giorno e la notte.
Giovanni Modica Scala
L’Agamennone, irrigidito nella sua immobilità tragica, sfrondato da qualsiasi accenno di danza, che potesse rompere l'unità drammatica dei cori, con la sua vicenda dura e inesorabile, ha incatenato l'attenzione, religiosamente silenziosa, di un popolo che, trasportato in un mondo di dèi, di eroi e di uomini di statura formidabile, su scene gigantesche, si è sentito piccino ed atterrito.
Un fremito di orrore, come un freddo vento di bufera, è passato su tutti quando il grido di Agamennone, colpito a morte, ha lacerato il silenzio opprimente; i sensi hanno percepito nitidamente il lugubre tinnire della scure di ferro, imbrattata di sangue, sui marmi della reggia degli Atridi. L'atmosfera tragicamente greve ed intensamente drammatica, creata dal vaticinio di Cassandra, non si è alleggerita con la fine del primo episodio, chè le parole dell'amante infedele di Apollo e le note tristi di una musica primitiva erano ancora sospese, nell'aria, come nubi temporalesche; e, a profetico accenno di nuove sventure, le bende divine della vergine innocente, rosseggiavano sinistramente sui gradini della casa maledetta, come grandi chiazze di sangue che gridavano vendetta.
La trilogia eschilea si è conclusa con le Coefore e le Eumenidi. Il secondo episodio ha segnato il massimo dell'intensità drammatica della vicenda; l’eterno tema della ereditarietà della colpa ha il suo pieno sviluppo con il matricidio di Oreste; chi uccide sarà ucciso. Clitennestra ha dato la vita a chi le darà la morte; a chi, cioè, strumento passivo nelle mani di Apollo, chiederà alla madre che si lasci uccidere, perchè si compia il gran rito della vendetta e della giustizia.
L'urlo di Egisto morente è ancora nelle orecchie di tutti; ed un palpito di compassione accompagna, nel suo ultimo cammino, la madre sventurata cui pena maggiore non poteva toccare per il suo delitto: essere uccisa da suo figlio, dal frutto delle sue viscere, eretto a vendicatore e giustiziere.
L'attesa spasmodica del pubblico fortemente impressionato dalla tragedia e preparato a qualcosa di luttuosamente inevitabile, dal volteggiare diabolico delle Erinni attorno al matricida, si è placata improvvisamente col giudizio di un tribunale in cui gli elementi divini ed umani si fondono armonicamente in una sentenza di perdono che assolve l'ultimo erede di una colpa atavica.
Ancora una volta, l'umanità rivive il suo travaglio eterno attraverso la tragedia attica che porta il sigillo del genio di Eschilo. La traduzione di Manara Valgimigli non ha tolto nulla alla solennità impetuosa dei versi greci, trasformati in un linguaggio più aderente alla nostra sensibilità moderna. Il battito possente del tragico d'Eleusi, come le martellate di Vulcano sull'incudine gigantesca dell'officina etnea, modella le parole, le scene, i caratteri.
Il dramma tragico domina incontrastato il tempo, insuperabile e incorruttibile, pur attraverso le diverse interpretazioni e le diverse espressioni linguistiche. Una causa emotiva particolare della tragedia, nella rappresentazione al teatro greco della Pentapoli, è da ricercarsi nell'esilio volontario dell'eroe di Platea, di Salamina, di Maratona e dell'Artemisio, dopo il trionfo di Sofocle.
In questa terra che conobbe il suo travaglio nostalgico, in questa conchiglia del sole, che lo vide cupo e solitario, stridente contrasto nella gloria di Jerone, in quest'isola luminosa che lui scelse a custodire le sue spoglie mortali, Eschilo ritorna a rinnovare i fasti e le glorie delle antiche Olimpiadi. Seguendo la valle dell'Anapo lento, rientrando a Gela, da Siracusa, un senso di religioso stupore invase l'animo di Dionisio, giunto alla fine di uno spettacolo grandioso.
Non altrimenti che l'animo di un popolo incastonato nella fossa profonda del Temenite, dinanzi alla sfilata di fiaccole che ora, come allora, hanno costellato di luci sanguigne il cielo impallidito del crepuscolo, tra il giorno e la notte.
Giovanni Modica Scala