L’ermetismo e la poetica di Salvatore Quasimodo
La Voce di Modica, 20 febbraio 1949
Il classicismo letterario ed il rispetto della terminologia erudita e retorica, spinti fino alla esasperazione, avevano provocata una naturale violenta reazione contro le vecchie forme. Il futurismo rivendicò a sé il compito di riportare la poesia alla spontaneità del sentimento ed alla libertà di espressione, intesa come fedeltà del verso alla ispirazione poetica; abolì tutto quanto aveva impedito al sentimento lirico di esprimersi liberamente e spontaneamente - metrica, rima, punteggiatura – e informò la sua scuola all'uso di vocaboli pittorico-musicali in grado di creare immagini e suoni, in un susseguirsi rapido di brevi notazioni descrittive. La meteora futurista ebbe il merito di indicare nuovi orizzonti da esplorare e nuove possibilità da sfruttare.
L’ermetismo, logica conseguenza della poetica futurista, accentuò la spontanea tendenza verso la rinnovazione integrale, formale e sostanziale, della vecchia scuola tradizionalista e continuò l'opera di demolizione, sfrondando il verso dalla massa di parole normali e comuni che lo costituiscono in maggior parte, lasciando solo i vocaboli essenziali ed immaginifici sui quali fece convergere le preziosità del ritmo e della melodia. Si creò, così, una poesia essenzialista i cui caratteri specifici sono la purezza, l’intimità lirica e l'immediatezza delle sensazioni. L'anima del lettore è invasa da un lento torpore, è avvolta da un incanto musicale che evoca ricordi ed impressioni della prima adolescenza, sepolti dal tempo; ma, rotto l'incanto, il lettore ritorna alla realtà, stordito ed incapace di trovare un nesso logico e significante in questi versi. Perchè il poeta ha seguito soltanto la sua ispirazione ed ha trascritto le sue sensazioni con la stessa immediatezza e successione con cui si sono presentate.
Qualche surrealista francese ha scritto che il poeta ”è un idiota cosciente”, rifacendosi al giudizio di Platone, secondo cui i poeti creano i loro canti in uno stato di divina ebbrezza, simile a quella delle baccanti, quando sono fuori di sé e pieni del dio. Senza arrivare a tanto, è certo che lo stato di ispirazione è cosi ricco di colore e di musica, che non può essere espresso che con vocaboli ricchi di colore e di musica - essenziali o immaginifici - e che il susseguirsi di immagini è cosi vario e rapido che non può essere trascritto secondo un nesso diverso o razionale, se non a rischio di perdere la sua immediatezza e fedeltà.
Un nesso logico non può esistere nella poetica dell'ermetismo, se non come un controsenso o un compromesso. Ligio ai dettami della "purezza lirica", il poeta crea i suoi canti allo stato originario e, direi quasi, verginale; è l'insieme, il tutto, che deve ricreare nel lettore le immagini ed i suoni, con la loro elementare forza comunicativa. Ma è evidente che non sempre il risultato corrisponde alle intenzioni e, allora, il verso assume un tono freddo e sibillino, che fa rimanere pensosi i meno iniziati, come davanti ad un messaggio cifrato.
Quasimodo è un ermetico ma è, sopratutto, un poeta. Un poeta che non si è uniformato rigidamente alla fredda teoria di una scuola, per seguire un convenzionalismo dominante o una moda, ma per una intima convinzione che affonda le sue radici in una ricca esperienza poetica. La sua arte si è rivelata in un particolare momento favorevole alla sua manifestazione, ed ha aderito perfettamente alle rinnovate esigenze della lirica italiana. Fede e non dottrina, dunque.
Nella sua vasta decennale produzione, il substrato inconfondibile è di pura marca ermetica e molto raramente l'uniformità è rotta da un momento di debolezza o di abbandono. La sua poetica, così come ci appare in una delle sue prime liriche: “Cavalli di luna e di vulcani”
Nel tempo delle frane,
le foglie, le gru assalgono l'aria:
in lume d'alluvione splendono
cieli densi aperti agli stellati;
……………………………..
Ma cacciato dagli uomini,
nel fulmine di luce ancora giaccio;
infante, a mani aperte,
a rive d'alberi e fiumi...
si è man mano addolcita e umanizzata. Abbastanza spesso la storia letteraria dell'ultimo cinquantennio ha registrato clamorose diserzioni ed improvvisi tradimenti. Govoni, da futurista accanito, diventa crepuscolare, come chi dicesse da guelfo a ghibellino (e Papini, Soffici, Folgore, Buzzi?). Altri, invece, Montale, per esempio, hanno accentuato la loro forma, sino a renderla addirittura incomprensibile.
Piuttosto che abbandonare il suo stile, Quasimodo ha preferito elevarlo; invece di cambiare il volto alla sua arte, ha preferito affinarla. E questa sua ansia di elevazione, sfociata in una forma più aperta d’espressione, non può considerarsi un allontanamento dalla via maestra:
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri sulla carlinga,
con ali maligne, le meridiane della morte;
t'ho visto dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
“Andiamo ai campi”. E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Smussati gli angoli troppo vivi di una poetica cristallizzata, le sue ultime liriche hanno assunto un significato più accessibile; le sue parole, i suoi versi sono più normali, sono più comuni e, quindi, più umani. Quest'ultimo risultato non può stupire chi ha seguito il poeta nella sua ansia di superamento. Pur nella insistenza al rispetto della propria personalità, Quasimodo ha conservato il senso di un sano equilibrio che lo differenzia dai giovanissimi; ha saputo, cioè, fondere armonicamente due diverse esigenze che sembravano inconciliabili: l’ermetismo e l’arte, nel suo significato universale.
Non credo sia inutile riportare una delle liriche più significative della sua produzione; una lirica umile e timida, in cui il poeta mette a nudo la sua anima, in un momento di pensosa tristezza, a cui non tenta neppure di reagire. A chi ha familiari Gozzano e Corazzini, non può sfuggire l'accostamento di questa lirica a quelle squisitamente crepuscolari:
Io sono forse un fanciullo
che ha paura dei morti,
ma che la morte chiama
perchè lo sciolga da tutte le creature:
i bambini , gli alberi, gli insetti:
da ogni cosa che ha cuore di tristezza.
Perchè non ha più voci
e le strade sono buie,
e più non c’è nessuno
che sappia farlo piangere
vicino a te, Signore.
Questo pregio, la sincerità, sia pure espressa in un raro momento di sconforto, aggiunto ai molti altri della sua arte, ce lo rende più accetto e ce lo fa sentire più vicino. E serve ad illuminare la sua poetica di una luce meno fredda e meno cupa, anche se il senso di una interrogazione non ben definita, resta sempre malinconicamente sospeso.
Ma per comprendere Quasimodo non è sufficiente conoscere le sue liriche; è necessario conoscere pure le sue splendide traduzioni, con cui ha reso meravigliosamente i lirici greci alla loro antica spontaneità del verso, in un linguaggio più aderente alla moderna maniera di sentire. Non traduzioni freddamente letterali o scolastiche, ma snelle ed intensamente vive; merito maggiore, la freschezza di ogni singolo concetto, che non è passivamente riesumato dalle ceneri del passato, ma studiato e riportato alla vita per un miracoloso processo di interpretazione.
"Proprio nella ricerca di una poesia veramente nuova e contemporanea - scrive Luciano Anceschi -, libera cioè dell'ornato pesante dell'archeologia e del culturalismo, in un linguaggio più leale ed aperto e poi, sopratutto, nella aspirazione del raggiungimento di una rigorosa purezza lirica, si ponevano le condizioni di una più approfondita ed intima lettura degli antichi poeti".
E Quasimodo, nella sua duplice veste di poeta e di profondo conoscitore della lingua greca classica, ha perfettamente interpretato lo spirito vitale che ha fatto sopravvivere ai secoli le liriche più famose della divina Saffo, di Anacreonte, di Alceo e di tutta una schiera di lirici dell'antica Ellade.
Ed ecco il punto di incontro tra l'antico e il nuovo, tra il principio e la fine; il punto che può rappresentare il ritorno alle origini, se si tengono presenti la forma elementare del verso e la sua intensità di significato. E non soltanto. Ma anche quell'ansia di infinito e la sottomissione al destino, propria della natura greca; e lo stesso senso di stupore muto e primitivo, lo stesso senso di costante incertezza, che fa dubitare della propria arte e del valore della propria missione:
Cicale, sorelle nel sole,
se vano come il vostro è il mio canto,
con voi mi nascondo nel folto dei pioppi
e aspetto le stelle…
Giovanni Modica Scala
L’ermetismo, logica conseguenza della poetica futurista, accentuò la spontanea tendenza verso la rinnovazione integrale, formale e sostanziale, della vecchia scuola tradizionalista e continuò l'opera di demolizione, sfrondando il verso dalla massa di parole normali e comuni che lo costituiscono in maggior parte, lasciando solo i vocaboli essenziali ed immaginifici sui quali fece convergere le preziosità del ritmo e della melodia. Si creò, così, una poesia essenzialista i cui caratteri specifici sono la purezza, l’intimità lirica e l'immediatezza delle sensazioni. L'anima del lettore è invasa da un lento torpore, è avvolta da un incanto musicale che evoca ricordi ed impressioni della prima adolescenza, sepolti dal tempo; ma, rotto l'incanto, il lettore ritorna alla realtà, stordito ed incapace di trovare un nesso logico e significante in questi versi. Perchè il poeta ha seguito soltanto la sua ispirazione ed ha trascritto le sue sensazioni con la stessa immediatezza e successione con cui si sono presentate.
Qualche surrealista francese ha scritto che il poeta ”è un idiota cosciente”, rifacendosi al giudizio di Platone, secondo cui i poeti creano i loro canti in uno stato di divina ebbrezza, simile a quella delle baccanti, quando sono fuori di sé e pieni del dio. Senza arrivare a tanto, è certo che lo stato di ispirazione è cosi ricco di colore e di musica, che non può essere espresso che con vocaboli ricchi di colore e di musica - essenziali o immaginifici - e che il susseguirsi di immagini è cosi vario e rapido che non può essere trascritto secondo un nesso diverso o razionale, se non a rischio di perdere la sua immediatezza e fedeltà.
Un nesso logico non può esistere nella poetica dell'ermetismo, se non come un controsenso o un compromesso. Ligio ai dettami della "purezza lirica", il poeta crea i suoi canti allo stato originario e, direi quasi, verginale; è l'insieme, il tutto, che deve ricreare nel lettore le immagini ed i suoni, con la loro elementare forza comunicativa. Ma è evidente che non sempre il risultato corrisponde alle intenzioni e, allora, il verso assume un tono freddo e sibillino, che fa rimanere pensosi i meno iniziati, come davanti ad un messaggio cifrato.
Quasimodo è un ermetico ma è, sopratutto, un poeta. Un poeta che non si è uniformato rigidamente alla fredda teoria di una scuola, per seguire un convenzionalismo dominante o una moda, ma per una intima convinzione che affonda le sue radici in una ricca esperienza poetica. La sua arte si è rivelata in un particolare momento favorevole alla sua manifestazione, ed ha aderito perfettamente alle rinnovate esigenze della lirica italiana. Fede e non dottrina, dunque.
Nella sua vasta decennale produzione, il substrato inconfondibile è di pura marca ermetica e molto raramente l'uniformità è rotta da un momento di debolezza o di abbandono. La sua poetica, così come ci appare in una delle sue prime liriche: “Cavalli di luna e di vulcani”
Nel tempo delle frane,
le foglie, le gru assalgono l'aria:
in lume d'alluvione splendono
cieli densi aperti agli stellati;
……………………………..
Ma cacciato dagli uomini,
nel fulmine di luce ancora giaccio;
infante, a mani aperte,
a rive d'alberi e fiumi...
si è man mano addolcita e umanizzata. Abbastanza spesso la storia letteraria dell'ultimo cinquantennio ha registrato clamorose diserzioni ed improvvisi tradimenti. Govoni, da futurista accanito, diventa crepuscolare, come chi dicesse da guelfo a ghibellino (e Papini, Soffici, Folgore, Buzzi?). Altri, invece, Montale, per esempio, hanno accentuato la loro forma, sino a renderla addirittura incomprensibile.
Piuttosto che abbandonare il suo stile, Quasimodo ha preferito elevarlo; invece di cambiare il volto alla sua arte, ha preferito affinarla. E questa sua ansia di elevazione, sfociata in una forma più aperta d’espressione, non può considerarsi un allontanamento dalla via maestra:
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri sulla carlinga,
con ali maligne, le meridiane della morte;
t'ho visto dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
“Andiamo ai campi”. E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Smussati gli angoli troppo vivi di una poetica cristallizzata, le sue ultime liriche hanno assunto un significato più accessibile; le sue parole, i suoi versi sono più normali, sono più comuni e, quindi, più umani. Quest'ultimo risultato non può stupire chi ha seguito il poeta nella sua ansia di superamento. Pur nella insistenza al rispetto della propria personalità, Quasimodo ha conservato il senso di un sano equilibrio che lo differenzia dai giovanissimi; ha saputo, cioè, fondere armonicamente due diverse esigenze che sembravano inconciliabili: l’ermetismo e l’arte, nel suo significato universale.
Non credo sia inutile riportare una delle liriche più significative della sua produzione; una lirica umile e timida, in cui il poeta mette a nudo la sua anima, in un momento di pensosa tristezza, a cui non tenta neppure di reagire. A chi ha familiari Gozzano e Corazzini, non può sfuggire l'accostamento di questa lirica a quelle squisitamente crepuscolari:
Io sono forse un fanciullo
che ha paura dei morti,
ma che la morte chiama
perchè lo sciolga da tutte le creature:
i bambini , gli alberi, gli insetti:
da ogni cosa che ha cuore di tristezza.
Perchè non ha più voci
e le strade sono buie,
e più non c’è nessuno
che sappia farlo piangere
vicino a te, Signore.
Questo pregio, la sincerità, sia pure espressa in un raro momento di sconforto, aggiunto ai molti altri della sua arte, ce lo rende più accetto e ce lo fa sentire più vicino. E serve ad illuminare la sua poetica di una luce meno fredda e meno cupa, anche se il senso di una interrogazione non ben definita, resta sempre malinconicamente sospeso.
Ma per comprendere Quasimodo non è sufficiente conoscere le sue liriche; è necessario conoscere pure le sue splendide traduzioni, con cui ha reso meravigliosamente i lirici greci alla loro antica spontaneità del verso, in un linguaggio più aderente alla moderna maniera di sentire. Non traduzioni freddamente letterali o scolastiche, ma snelle ed intensamente vive; merito maggiore, la freschezza di ogni singolo concetto, che non è passivamente riesumato dalle ceneri del passato, ma studiato e riportato alla vita per un miracoloso processo di interpretazione.
"Proprio nella ricerca di una poesia veramente nuova e contemporanea - scrive Luciano Anceschi -, libera cioè dell'ornato pesante dell'archeologia e del culturalismo, in un linguaggio più leale ed aperto e poi, sopratutto, nella aspirazione del raggiungimento di una rigorosa purezza lirica, si ponevano le condizioni di una più approfondita ed intima lettura degli antichi poeti".
E Quasimodo, nella sua duplice veste di poeta e di profondo conoscitore della lingua greca classica, ha perfettamente interpretato lo spirito vitale che ha fatto sopravvivere ai secoli le liriche più famose della divina Saffo, di Anacreonte, di Alceo e di tutta una schiera di lirici dell'antica Ellade.
Ed ecco il punto di incontro tra l'antico e il nuovo, tra il principio e la fine; il punto che può rappresentare il ritorno alle origini, se si tengono presenti la forma elementare del verso e la sua intensità di significato. E non soltanto. Ma anche quell'ansia di infinito e la sottomissione al destino, propria della natura greca; e lo stesso senso di stupore muto e primitivo, lo stesso senso di costante incertezza, che fa dubitare della propria arte e del valore della propria missione:
Cicale, sorelle nel sole,
se vano come il vostro è il mio canto,
con voi mi nascondo nel folto dei pioppi
e aspetto le stelle…
Giovanni Modica Scala