Madonna delle Lacrime di Siracusa
Un nuovo documento sulla lacrimazione della Madonnina
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I giornali accennarono alla notizia con lo scarso rilievo di un comune fatto di cronaca. Niente poteva far pensare, allora, all’enorme importanza che avrebbe rivestito nel futuro, la prima manifestazione del fenomeno. La lagrimazione di una madonnina di gesso ebbe diverse interpretazioni, d’ordine naturale e metafisico, ma c'era in tutti uno spiccato scetticismo per il grido al miracolo della popolana di un povero quartiere di Siracusa.
Mio cugino, l'ingegnere Giovanni Sparacino, proveniente da Genova e diretto a Modica per l'annuale periodo di ferie presso la famiglia, non seppe frenare la sua curiosità di studioso abituato alle speculazioni matematiche; e Via degli Orti lo ebbe tra i primi visitatori. Le conclusioni cui arrivò quella lontana sera, mi sconcertarono.
Se c'è un trucco - mi confessò - debbo convenire che è stato realizzato magistralmente. Per quanto mi sembri azzardato parlare di miracolo, sono costretto a dichiarare la mia impotenza a spiegare il fenomeno. Il muro è asciutto, il gesso che ritrae l’effigie della Madonna è uniformemente ricoperto di smalto, eppure le lagrime fuoriescono. Non dirmi che possa trattarsi di un caso di suggestione collettiva perché - di qualunque cosa si tratti: acqua o lagrime - mi sono bagnato le dita...
Il quarto giorno della lacrimazione - dopo una notte di tormentose teorie, incapace di trovare una spiegazione logicamente umana - decisi di affrontare il problema con i mezzi più idonei. Fu così che mi trovai nella modesta casa dei Jannuso, con una macchina da presa cinematografica.
Confesso che, a nove anni di distanza, gli avvenimenti di quell'agosto mi sembrano appartenere ad un passato remotissimo; ho, ancora oggi, l’impressione di aver vissuto un periodo inconsueto in cui la realtà sfiorava il sogno, in cui l'umano tendeva al divino; e il tutto era unito e separato, nello stesso tempo. È come se, ora, io guardassi al me stesso d'allora come ad un estraneo con l'occhio incollato alla macchina da presa, durante i lunghissimi momenti in cui il tremulo luccichio all'angolo dell'occhio di gesso preannunziava il formarsi di una nuova lagrima, a scandire i fotogrammi nella lenta trasformazione del primo umidore in goccia che scendeva, piano, sulla guancia, per perdersi sulle mani tese dal basso, ad accoglierla. Nel grigiore soffocante della stanzetta di Via degli Orti, l'interrogativo assunse proporzioni ed importanza enormi; mi sembrò di vivere fuori del tempo, mentre le cose e le persone che mi circondavano, si trasformavano in ombre dai contorni indefiniti e sfocati...
Appena fuori, la gran vampa del sole mi riportò alla realtà delle cose finite e mi diede un senso di strana tranquillità. Mi ritrovai nell’accessibile, nel provato, sul solido suolo del naturale.
I dubbi ritornarono con la notte, nel primo dormiveglia che ricreò l'atmosfera irreale vissuta come un sogno.
E, con i dubbi, l’inquietudine.
E i ricordi.
La mia fede ancestrale e purissima di bambino condotto per mano dalla nonna, carica d'anni e di saggezza, alla Messa del mattino, durante la novena di Natale. La strada acciottolata, umida di pioggia, su cui si rifletteva la luce avara delle lampade, il richiamo armonioso delle campane, il tepore della chiesa, la penombra del coro, l'odore di bagnato e di pulito, il canto degli inni sacri...E alla fine, fuori, che era già chiaro, per il sorteggio del Bambino di cera...Dio mio, quanto tempo è trascorso!
E poi la guerra, tanto tempo dopo, tanto tempo fa. Con i suoi orrori: la fame, il freddo, la morte. La prigionia nei campi tedeschi di concentramento, il lamento dei feriti; il rantolo dei moribondi, il pianto dei bambini ebrei che scontavano la colpa di essere nati.
La fede perduta...
Quando tornai, per la seconda volta, la Madonna aveva esaurito le sue lacrime umane. Ma la casa che aveva visto il manifestarsi prodigioso del suo dolore, era diventata mèta di un pellegrinaggio senza precedenti. L'immagine sacra dovette essere portata fuori, all'aperto, perché tutto un popolo potesse vederla e venerarla. Ed io tornai, quasi ogni giorno di quell'agosto arroventato, nella speranza non assurda che il miracolo potesse ripetersi.
Ma la Madonna non pianse più.
Piansero, invece, innumerevoli madri per il figlio cieco, storpio o paralitico. Piansero ed urlarono in cento dialetti, accomunate nel dolore di sempre, loro retaggio. Ho visto, attraverso le lenti della cinepresa, con gli occhi appannati dalle lacrime, le corde del loro collo tendersi come a spezzarsi, nel grido di supplica che conteneva tutto il loro tormento, tutta la loro disperazione, tutta la loro speranza.
La folla, alle loro spalle, sottolineava, con il cupo mormorio della preghiera, il dramma di mille sventure. Mi sembrava di ascoltare il lento scorrere di un fiume, il coro solenne nella cavea greca.
Ad un tratto, il silenzio. Un silenzio anormale, tangibile, pauroso.Ogni movimento si arrestava a mezz'aria; la folla diventava un blocco immobile.
Un attimo.
Poi, un urlo immenso, terrificante, si levava al cielo, ondeggiava sulla piazza, si riversava nelle vie...
Miracolo, miracolo!
Due volte ho vissuto questo istante. Quanti, come me, sono stati spettatori o protagonisti, dovessero vivere cento vite, non lo dimenticheranno più. Appena che io torni a quel tempo, con la memoria, sento ancora l'urlo della folla agghiacciarmi il sangue e perforarmi il cervello. E la pelle torna ad accapponarsi.
Non ricordo più le date, non ricordo più i nomi, ma che importanza hanno? Ho visto una donna di cinquant’anni, paralitica da venti, ritrovare ad un tratto l'uso delle gambe. Ho visto un bambino di quattro anni, paralitico dalla nascita, cominciare a muovere, all’improvviso, i primi passi incerti; e le mille mani - attraverso cui fluiva la fede - tese come ad aiutarlo, senza sfiorarlo…
Succede ancora che mi svegli di soprassalto, con il cuore in tumulto, in un bagno freddo di paura. Dalle profondità dell’incoscio riaffiora, nel sonno, l’antico terrore d'aver lasciata a brandelli la mia anima sui fili spinati del lager. Le mani madide saettano a coprire gli occhi spalancati nel buio, dove si muovono i fantasmi dell’apocalisse. Rivivo, in un attimo, i giorni dell’odio, della vio1enza, della distruzione. Fiumi di sangue. Lagrime di innocenti. L'interrogativo angoscioso delle vittime che affrontavano il plotone di esecuzione, il capestro, il forno crematorio. Perchè?
Il tempo scivola via come sabbia tra le dita. L'umanità non ha finito ancora di lenire tutte le sue ferite. Lacrime divine scorrono assieme a quelle umane.
Torna alla mente, con la freschezza delle cose vive, l’espressione trasfigurata dei prostrati ai piedi della Madonna, nella preghiera. Risento il pianto commovente del bambino, per una nuova sublime esperienza e l'empito potente di un popolo che grida al miracolo. Perchè?
Attraverso i vetri appannati della finestra filtra la prima luce dell’alba. Sento, nella via, un ticchettìo di passi frettolosi. Le donnette si recano in chiesa a propiziarsi, con l'umile preghiera, la grazia di Dio per il nuovo giorno che sorge. Ignorano il tormento interiore della ricerca. La verità è in loro, viva ed immutabile, assieme alla gran luce della fede che non conosce dubbi e incertezze.
Così è sempre stato, così è, così sarà sempre. Un interrogativo risponde ad un altro. La risposta è in noi. Basta saperla cercare con la purezza dei sentimenti che ci fece bambini.
Il lungo cammino per arrivarci non è stato percorso invano. Ed il tormento, non inutile.
Perché, alla fine, ho ritrovato la fede.
Modica, primavera 1962
[Vai a "L'esperienza della fede" (1989)]
I giornali accennarono alla notizia con lo scarso rilievo di un comune fatto di cronaca. Niente poteva far pensare, allora, all’enorme importanza che avrebbe rivestito nel futuro, la prima manifestazione del fenomeno. La lagrimazione di una madonnina di gesso ebbe diverse interpretazioni, d’ordine naturale e metafisico, ma c'era in tutti uno spiccato scetticismo per il grido al miracolo della popolana di un povero quartiere di Siracusa.
Mio cugino, l'ingegnere Giovanni Sparacino, proveniente da Genova e diretto a Modica per l'annuale periodo di ferie presso la famiglia, non seppe frenare la sua curiosità di studioso abituato alle speculazioni matematiche; e Via degli Orti lo ebbe tra i primi visitatori. Le conclusioni cui arrivò quella lontana sera, mi sconcertarono.
Se c'è un trucco - mi confessò - debbo convenire che è stato realizzato magistralmente. Per quanto mi sembri azzardato parlare di miracolo, sono costretto a dichiarare la mia impotenza a spiegare il fenomeno. Il muro è asciutto, il gesso che ritrae l’effigie della Madonna è uniformemente ricoperto di smalto, eppure le lagrime fuoriescono. Non dirmi che possa trattarsi di un caso di suggestione collettiva perché - di qualunque cosa si tratti: acqua o lagrime - mi sono bagnato le dita...
Il quarto giorno della lacrimazione - dopo una notte di tormentose teorie, incapace di trovare una spiegazione logicamente umana - decisi di affrontare il problema con i mezzi più idonei. Fu così che mi trovai nella modesta casa dei Jannuso, con una macchina da presa cinematografica.
Confesso che, a nove anni di distanza, gli avvenimenti di quell'agosto mi sembrano appartenere ad un passato remotissimo; ho, ancora oggi, l’impressione di aver vissuto un periodo inconsueto in cui la realtà sfiorava il sogno, in cui l'umano tendeva al divino; e il tutto era unito e separato, nello stesso tempo. È come se, ora, io guardassi al me stesso d'allora come ad un estraneo con l'occhio incollato alla macchina da presa, durante i lunghissimi momenti in cui il tremulo luccichio all'angolo dell'occhio di gesso preannunziava il formarsi di una nuova lagrima, a scandire i fotogrammi nella lenta trasformazione del primo umidore in goccia che scendeva, piano, sulla guancia, per perdersi sulle mani tese dal basso, ad accoglierla. Nel grigiore soffocante della stanzetta di Via degli Orti, l'interrogativo assunse proporzioni ed importanza enormi; mi sembrò di vivere fuori del tempo, mentre le cose e le persone che mi circondavano, si trasformavano in ombre dai contorni indefiniti e sfocati...
Appena fuori, la gran vampa del sole mi riportò alla realtà delle cose finite e mi diede un senso di strana tranquillità. Mi ritrovai nell’accessibile, nel provato, sul solido suolo del naturale.
I dubbi ritornarono con la notte, nel primo dormiveglia che ricreò l'atmosfera irreale vissuta come un sogno.
E, con i dubbi, l’inquietudine.
E i ricordi.
La mia fede ancestrale e purissima di bambino condotto per mano dalla nonna, carica d'anni e di saggezza, alla Messa del mattino, durante la novena di Natale. La strada acciottolata, umida di pioggia, su cui si rifletteva la luce avara delle lampade, il richiamo armonioso delle campane, il tepore della chiesa, la penombra del coro, l'odore di bagnato e di pulito, il canto degli inni sacri...E alla fine, fuori, che era già chiaro, per il sorteggio del Bambino di cera...Dio mio, quanto tempo è trascorso!
E poi la guerra, tanto tempo dopo, tanto tempo fa. Con i suoi orrori: la fame, il freddo, la morte. La prigionia nei campi tedeschi di concentramento, il lamento dei feriti; il rantolo dei moribondi, il pianto dei bambini ebrei che scontavano la colpa di essere nati.
La fede perduta...
Quando tornai, per la seconda volta, la Madonna aveva esaurito le sue lacrime umane. Ma la casa che aveva visto il manifestarsi prodigioso del suo dolore, era diventata mèta di un pellegrinaggio senza precedenti. L'immagine sacra dovette essere portata fuori, all'aperto, perché tutto un popolo potesse vederla e venerarla. Ed io tornai, quasi ogni giorno di quell'agosto arroventato, nella speranza non assurda che il miracolo potesse ripetersi.
Ma la Madonna non pianse più.
Piansero, invece, innumerevoli madri per il figlio cieco, storpio o paralitico. Piansero ed urlarono in cento dialetti, accomunate nel dolore di sempre, loro retaggio. Ho visto, attraverso le lenti della cinepresa, con gli occhi appannati dalle lacrime, le corde del loro collo tendersi come a spezzarsi, nel grido di supplica che conteneva tutto il loro tormento, tutta la loro disperazione, tutta la loro speranza.
La folla, alle loro spalle, sottolineava, con il cupo mormorio della preghiera, il dramma di mille sventure. Mi sembrava di ascoltare il lento scorrere di un fiume, il coro solenne nella cavea greca.
Ad un tratto, il silenzio. Un silenzio anormale, tangibile, pauroso.Ogni movimento si arrestava a mezz'aria; la folla diventava un blocco immobile.
Un attimo.
Poi, un urlo immenso, terrificante, si levava al cielo, ondeggiava sulla piazza, si riversava nelle vie...
Miracolo, miracolo!
Due volte ho vissuto questo istante. Quanti, come me, sono stati spettatori o protagonisti, dovessero vivere cento vite, non lo dimenticheranno più. Appena che io torni a quel tempo, con la memoria, sento ancora l'urlo della folla agghiacciarmi il sangue e perforarmi il cervello. E la pelle torna ad accapponarsi.
Non ricordo più le date, non ricordo più i nomi, ma che importanza hanno? Ho visto una donna di cinquant’anni, paralitica da venti, ritrovare ad un tratto l'uso delle gambe. Ho visto un bambino di quattro anni, paralitico dalla nascita, cominciare a muovere, all’improvviso, i primi passi incerti; e le mille mani - attraverso cui fluiva la fede - tese come ad aiutarlo, senza sfiorarlo…
Succede ancora che mi svegli di soprassalto, con il cuore in tumulto, in un bagno freddo di paura. Dalle profondità dell’incoscio riaffiora, nel sonno, l’antico terrore d'aver lasciata a brandelli la mia anima sui fili spinati del lager. Le mani madide saettano a coprire gli occhi spalancati nel buio, dove si muovono i fantasmi dell’apocalisse. Rivivo, in un attimo, i giorni dell’odio, della vio1enza, della distruzione. Fiumi di sangue. Lagrime di innocenti. L'interrogativo angoscioso delle vittime che affrontavano il plotone di esecuzione, il capestro, il forno crematorio. Perchè?
Il tempo scivola via come sabbia tra le dita. L'umanità non ha finito ancora di lenire tutte le sue ferite. Lacrime divine scorrono assieme a quelle umane.
Torna alla mente, con la freschezza delle cose vive, l’espressione trasfigurata dei prostrati ai piedi della Madonna, nella preghiera. Risento il pianto commovente del bambino, per una nuova sublime esperienza e l'empito potente di un popolo che grida al miracolo. Perchè?
Attraverso i vetri appannati della finestra filtra la prima luce dell’alba. Sento, nella via, un ticchettìo di passi frettolosi. Le donnette si recano in chiesa a propiziarsi, con l'umile preghiera, la grazia di Dio per il nuovo giorno che sorge. Ignorano il tormento interiore della ricerca. La verità è in loro, viva ed immutabile, assieme alla gran luce della fede che non conosce dubbi e incertezze.
Così è sempre stato, così è, così sarà sempre. Un interrogativo risponde ad un altro. La risposta è in noi. Basta saperla cercare con la purezza dei sentimenti che ci fece bambini.
Il lungo cammino per arrivarci non è stato percorso invano. Ed il tormento, non inutile.
Perché, alla fine, ho ritrovato la fede.
Modica, primavera 1962
[Vai a "L'esperienza della fede" (1989)]