La prima notizia storica sulla chiesa di S. Domenico di Modica, la ricaviamo dall’abate netino Rocco Pirro: “Ecclesia S. Dominici ab anno 1461, nunc a fratribus novum construitur templum”, con il relativo attiguo convento1. La chiesa fu distrutta dal terremoto del 1613 e riedificata, sulle sue rovine, nel 1678. Il terremoto, più disastroso, del 1693, non riuscì ad abbattere la recente costruzione della chiesa e, tantomeno, il convento, i cui muri perimetrali di base raggiungono uno spessore di oltre due metri. Placido Carrafa attesta che, intorno al 1630, era “fiorente il rispettabile Órdine domenicano, sotto la tutela del fondatore2, san Domenico Guzmàn”.
L’attuale cortile interno del palazzo municipale, sino ai primi anni del secondo dopoguerra, conservava ancora l’originale struttura della silva conventuale, con al centro un pozzo, sul tipo di quello che ancora si può vedere nel cortile interno del convento di Sant’Anna.
La notizia fornitaci da Rocco Pirro, sulla data di costruzione della chiesa, trova conferma in un documento dell’Archivio Capitolare della chiesa di S. Giorgio, con il quale, intorno alla metà del Quattrocento, un priore domenicano chiese ed ottenne l’autorizzazione a costruire una chiesa da intitolare a San Domenico, e un convento per i numerosi frati dell’Ordine. Durante tutto il tempo occorso per i lavori, i domenicani furono autorizzati a celebrare la Messa e le altre sacre funzioni, nella chiesa del SS. Salvatore3, suffraganea della Matrice di S. Giorgio.
Non è questa la sede per trattare dell’lnquisizione in generale, spagnola e romana, e di quella siciliana in particolare, giova però, ai fini di una maggiore intelligenza sulle ricerche che mi portarono alla scoperta della cripta di S. Domenico, offrire qualche cenno sulla istituzione in Sicilia del Tribunale del Santo Uffizio, di promanazione spagnola.
Quale premio per aver cacciati i Mori dalla Spagna, Ferdinando il Cattolico ottenne da papa Sisto IV la facoltà di nominare un Inquisitore Generale, nella persona del fanatico domenicano Tommaso Torquemada, con uguale facoltà di nominare altri Inquisitori nelle terre dipendenti dalla monarchia spagnola.
L’Inquisizione nella Spagna e nei territori ad essa soggetti non fu una istituzione nuova ad opera di Ferdinando e di Isabella di Castiglia, ma soltanto una riforma ed un potenziamento dell’antica, che esisteva già nel XIII secolo. Per la Spagna, l’Inquisizione fu soprattutto uno straordinario strumento politico. Gli Inquisitori arrivavano là dove i funzionari regi non potevano, a causa dei privilegi e delle leggi civili. Di fatto, erano servitori del re ma, giuridicamente, lo erano della Chiesa; e per la Chiesa le leggi civili non avevano vigore.
L’istituzione fu appoggiata e sostenuta dai sovrani, che si impegnarono a fondo al fianco; e, quando era necessario, le offrirono l’aiuto dell’esercito. In dieci anni, si installò dovunque, nella Spagna. Dopo essersi insediati, gli Inquisitori si irradiarono nelle città e nelle campagne, spostandosi senza soste. Gli accusati si contarono a migliaia: tutti, o quasi tutti, ebrei convertiti, moltiplicarono gli autodafé4, cerimonie bibbliche in cui si leggevano le sentenze, commentate dai predicatori. Da tutte le parti s’innalzarono le fiamme dei roghi. Si dissotterrarono e si bruciarono i cadaveri, e anche i vivi, a decine, oppure i manichini che raffiguravano quelli che erano sfuggiti alla giustizia inquisitoriale 5.
Il primo Inquisitore inviato in Sicilia, nel 1487, fu il domenicano Antonio La Pegna: il 18 agosto dello stesso anno, salì al rogo la prima vittima siciliana dell’Inquisizione: Eulalia Tamarit, una ebrea nativa di Saragozza e residente nell’isola6. Ultimo di una infelice schiera fu l’eretico Antonio Canzonieri di Ciminna, bruciato sulla catasta di legna eretta nel Piano di S. Erasmo di Palermo, nel 17327. Ultimo Inquisitore in Sicilia fu Salvatore Ventimiglia e Statella, vescovo di Catania.
Senza nulla togliere ai grandi meriti dei domenicani, nel campo della teologia, delle lettere, della filosofia, delle arti, delle scienze e della storia (domenicano fu quel Tommaso Fazello che, nel 1558 - dopo tanti anni di studi e di ricerche, condotte più volte, in tutto il territorio della Sicilia - diede alle stampe la prima edizione del “De rebus Siculis decades duae”) è tristemente nota la loro responsabilità nel governo di quel territorio e strumento di morte che fu l’Inquisizione contro la haeretica pravitas.
Modica, capitale di una contea tra le più vaste e più ricche della Sicilia, ebbe il triste privilegio di essere sede di uno dei più importanti Commissariati inquisitori (dopo Palermo, Messina e Catania; e prima di Siracusa), istituiti in quasi tutte le città della Sicilia, dal Tribunale del S. Uffizio. Si componeva del Commissario, assistito da un Mastro Notario, da un Teniente de Capitan, un Teniente de Receptor e 40 Familiares8, cioè da un piccolo esercito di sbirri, scelti - afferma il viceré Marcantonio Colonna, nel 1577 - tra “los richos, nobles y los delinquientes”. I ricchi e i nobili formavano i quadri dirigenti; il ruolo esecutivo di delatore e di aguzzino era affidato ai familiares reclutati tra i tavernari, i macellai, i carrettieri e gli ex soldati9.
L’importanza del commissariato di Modica era tale che, nel 1660, si spostò da Palermo l’Inquisitore Generale, per celebrare nella chiesa di S. Pietro una Messa Grande, in funzione della lettura di una declaratoria di anatema. La cerimonia, a cui furono invitati a partecipare - pena la scomunica - tutti i cittadini di ogni grado e condizione, si concluse con una processione solenne, partita dal Castello dei Conti di Modica, attraverso le principali vie cittadine, nell’incessante frastuono delle campane che non copriva, tuttavia, il salmodiare cantilenante di una folla di plagiati fedeli.
Non mancarono neppure scontri di attribuzione, nel campo della giustizia criminale, tra l’Inquisizione che godeva di un foro particolare, e il conte di Modica, al quale re Martino aveva concesso l’eccezionale privilegio - unico in Sicilia - del mero e misto imperio: massimo, medio e minimo, con la istituzione di una Gran Corte (pari, per importanza, alla Regia Magna Curia di Palermo), facultata a giudicare di tutti i delitti, in prima e seconda istanza, ad eccezione di quelli di lesa maestà.
L’epoca della costituzione del Commissariato di Modica deve essere fissato intorno alla fine del Quattrocento, come terminus post quem; successivamente, in ogni caso, alla costruzione della chiesa di S. Domenico e del convento annesso. Da quel poco che gli scavi hanno portato alla luce, e dalla attuale disposizione dei due edifici religiosi, è più che legittimo supporre che il Commissariato occupasse tutta l’area interna del cortile che congiungeva la chiesa al convento: la prigione e la camera di tortura, attrezzata per gli interrogatori degli inquisiti, dovevano essere ricavati nei vani ipogeici sottostanti.
La tortura era stata autorizzata da papa Innocenzo IV, con la bolla “Ad extirpanda”, e confermata da due dei suoi successori. Doveva essere praticata “citra membri diminutionem et mortis periculum” - raccomandazione che rimase sempre lettera morta - per costringere l’accusato a confessare l’eresia. A livello di raffinatezza, la tortura veniva praticata a Palermo10, dove si svolgeva il processo vero e proprio, a carico dei sospettati provenienti da tutta l’isola, e dove, in caso di condanna, aveva luogo l’esecuzione capitale sul rogo11. Le torture previste ed elencate nei manuali dell’inquisizione erano di quattordici tipi: tra i più noti, quello dei ceppi, della ruota, del graticcio arroventato, del cavalletto adoperato per stirare e slogare le membra, e del tratto di corda.
Ai Commissariati che, come funghi velenosi, pullulavano in tutte le città della Sicilia, era riservato il diritto di usare la tortura del tratto di corda, che non era affatto meno crudele delle altre e, come pena, la condanna alla gogna o alla fustigazione pubblica.
La tortura della corda era usato dagli Inquisitori come mezzo efficace per estorcere una confessione d’eresia, a differenza dei tribunali civili, che ne disponevano come pena12. Il tormento consisteva nel legare le mani dell’accusato, o del condannato, dietro la schiena, con una fune che, passando per una carrucola, si arrotolava attorno ad un cilindro attaccato al soffitto. Il disgraziato veniva sollevato da terra e lo si lasciava poi piombare giù di colpo, anche più volte di seguito - due, tre, quattro “stroppate di corda” - sino allo slogamento degli omeri13.
La tortura si applicava alla presenza del Commissario, inquisitore di prima istanza, di un giudice che sorvegliava l’esatta esecuzione da parte del carnefice, da un medico pronto a riparare le orrende conseguenze e da un segretario che annotava, in un apposito verbale, le grida di sofferenza e di aiuto del torturato, le urla di dolore, le imprecazioni, e la sua maniera di contorcersi, perché ogni minimo particolare veniva vagliato, ai fini di stabilire se la confessione era completa o se la tortura doveva essere ripetuta per estorcere altri particolari. Non era affatto raro il caso di prigionieri che morivano durante la “audiencia de tormento’’.
Il lato barbaro e giuridicamente mostruoso della procedura inquisitoriale era la segretezza del procedimento e l’inappellabilità delle sentenze emesse dal Tribunale del Sant’Uffizio di Palermo, a cui venivano inviati, sotto pesante scorta, gli inquisiti con tutto il corredo delle denuncie e delle testimonianze anonime, delle prove raccolte e della confessione di colpa, estorta sotto tortura.
Interrogatori per giorni e notti, durante i quali gli inquisitori si davano il cambio, ma l’inquisito era costretto a rimanere sveglio con secchiate di acqua gelata o con frustrate. Al disgraziato non veniva concesso neppure di conoscere le imputazioni di cui si pretendeva la confessione. Lo si dichiarava reo di apostasia o di eresia, senza altri particolari di tempo, di modo e di luogo. La proclamazione di innocenza veniva reputata una resistenza criminale, che portava l’inquisito alla morte.
E mentre nei sotterranei si levavano, alte e strazianti, le urla di dolore dei torturati - che lasciavano freddi e indifferenti giudici e carnefici - domenicani e gesuiti, dai pulpiti delle cattedrali, salmodiavano l’invocazione di Cristo al Padre: “Perdona loro perché non sanno quel che fanno”. O recitavano, con lingua biforcuta: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Oppure ripetevano la massima di Confucio che, cinque secoli dopo Cristo, il Cristianesimo aveva fatto sua: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”.
Non era raro il caso in cui il sospettato ingiustamente, per porre termine ai tormenti, confessasse colpe non commesse. In questo compito veniva agevolato dalle accattivanti promesse degli inquisitori i quali - per indurre l’inquisito a confessare - erano autorizzati a ricorrere a qualsiasi perfido artificio. Il più comune, e più esecrabile, era quello di promettergli la salvezza, in cambio di una confessione completa. Per avere salva la vita e far cessare i tormenti della tortura, l’accusato confessava le sue colpe, riconosceva la sua professione di eretico e forniva particolari che avrebbero incriminato complici e favoreggiatori. Ma quando, dopo aver vuotato il sacco, reclamava il perdono giudiziale, l’inquisitore gli rispondeva che, appunto, grazie alla confessione, gli venivano perdonati tutti gli errori e che, per salvare la sua anima, il suo corpo sarebbe stato bruciato sul rogo.
Se la confessione estorta in questa indegna ed inumana procedura rivelava colpe non gravi, tali cioè da non importare la pena di morte, il peccatore pentito veniva condannato a pene che talvolta superavano in crudeltà la morte stessa: il carcere perpetuo, per esempio, o decenni di remo sulle galee; oltre, si intende, a la confisca di tutti i suoi beni. In veste di “penitenziato” veniva a far parte dello “spettacolo”, quale esempio ai cristiani, della misericordia dell’Inquisizione.
Il cosiddetto “Spettacolo” o “Autodafé”, atto di fede, era la grandiosa manifestazione pubblica, studiata nei minimi particolari, per incutere nella gente il terrore della vendetta divina e il rigore del Tribunale del Sant’Uffizio. Serviva, nello stesso tempo, a suscitare nelle anime elette l’orrore verso gli eretici e i grandi peccatori. Sulle piazze e nelle chiese, i predicatori incitavano i credenti ad assistere allo “Spettacolo”, promettendo sino a quaranta giorni di indulgenza plenaria.
Dinanzi ad una folla enorme, venivano lette le sentenze, spesso lunghissime, con estrema lentezza; dopo di che, i condannati al rogo venivano consegnati ai carnefici del braccio secolare. Mentre li legavano ai pali, un monaco, brandendo una croce come una spada, continuava ad esortare i condannati a confessare o a riconfessare le loro colpe. Se un condannato mostrava segni di ravvedimento sincero, il monaco faceva un cenno al carnefice, che strangolava la vittima, prima che fosse dato fuoco alla legna.
Questa era l’unica grazia che il misericordioso tribunale era disposto a concedere ai pentiti. Riportano, le cronache del tempo: “La sentenza fu esecuta con afforcarsi prima e poi bruggiarsi il suo corpo che rimase la pura cenere”. Per gli altri c’era la lenta morte tra le fiamme. Spenti i roghi, i penitenziati venivano ricondotti nelle prigioni dello Steri, in quella più o meno lunga attesa che precedeva la fustigazione, il carcere perpetuo, l’esilio o il lavoro forzato sulle galee dello Stato.
“Le conversioni, pur senza raggiungere la consistenza vistosa o addirittura iperbolica, ipotizzata da uno storico moderno14, furono tuttavia più numerose di quanto si creda. Forse, a giustificazione completa e assolutoria degli ebrei che 'subirono’ il battesimo, oltre alla sicurezza di non essere più braccati come bestie feroci, influì anche l’amore per la terra che li aveva visti nascere e che conservava le spoglie di decine di generazioni che li avevano preceduti, e l’attaccamento per un ambiente che, in alcune località, se non amico, non si era rivelato pericolosamente ostile”15.
“Purtroppo, anche se assorbiti civilmente e giuridicamente dalle comunità cristiane, gli ebrei furono sempre riguardati come un corpo estraneo: cristiani, sì, ma cristiani-ebrei; siciliani, si, ma siciliani-ebrei. Su di loro pesò sempre il sospetto, non infondato, della conversione per convenienza, una conversione che, anche per i cristiani, aveva tutto il significato del tradimento; e chi tradisce una volta è portato a tradire ancora. Queste considerazioni costituirono un motivo preconcetto perché fossero tenuti d’occhio, con particolare diffidenza, da tutti; dai cristiani naturali (come i documenti designano i cristiani per nascita), perché non si riteneva possibile che una semplice disposizione di legge ed un po’ di acqua lustrale potessero cancellare secoli di odio, biologicamente entrato nel sangue, che procurava la sensazione fisica di un irrefrenabile ribrezzo; dai convertiti puri, che furono, in ogni tempo, i peggiori e i più accaniti nemici dei loro ex correligionari; e, infine, dagli sgherri della Inquisizione che, finalmente, aveva sui neofiti quella giurisdizione che non aveva potuto avere, sin quando gli ebrei non avevano abiurato. Uno degli scopi principali di questa istituzione era, infatti, quello di sorvegliare e verificare la autenticità della fede dei cosiddetti ’marrani’ o ’porci’, cioè degli ebrei convertiti solo in apparenza. L’astensione dal lavoro nella giornata del sabato, il non segnarsi al suono di una campana che annunciava una funzione religiosa, il rispetto di una elementare norma igienica, quale poteva essere la periodica pulizia del proprio corpo, erano interpretati come professione di fede ebraica e considerati motivi più che fondati per dubitare della sincerità di una conversione”16.
Dei 502 rilasciati tra il 1511 e il 1533, ben 355 furono ebrei. La caccia antisemita assunse i caratteri dello sterminio. Negli autodafé e nei roghi che li seguirono, i condannati comparvero e furono bruciati anche a gruppi di decine, uomini e donne alla rinfusa. Fu davvero un gran da fare per giudici e boia17.
I neofiti della Contea di Modica pagarono un alto contributo di vittime a quest’ennesima orgia di sangue ebreo: nel quadriennio 1529-1532, su 45 rilasciati al bracco secolare, ben 21 provenivano dalle terre di Modica e di Ragusa. Sulla base della documentazione raccolta nei due Commissariati della Contea, il Tribunale dell’lnquisizione condannò a morte undici modicani e dieci ragusani, confessi o soltanto sospettati di eresia. Le vittime, per la maggior parte, erano ebrei dichiarati o neofiti giudeizzanti. Di essi, otto bruciarono sul rogo, per allietare, con i loro corpi che si contorcevano assieme alle fiamme, la morbosa e crudele curiosità della plebe che assiepava il Piano di Sant’Erasmo o il Baluardo dello Spasimo. Gli altri tredici vennero giustiziati in effige perché, nel frattempo, si erano dati alla fuga, espatriando verso lidi più ospitali18.
L’Inquisizione rappresentò una peste che decimò il gregge cristiano di mezza Europa; l’elenco delle sue vittime è più numeroso di quello del martirologio cristiano dei primi tre secoli dell’era volgare. Il regime di terrore istaurato dal Tribunale del Sant’Uffizio portò la madre a denunziare il figlio sospetto d’eresia, la moglie il marito, il fratello la sorella19. La ferocia dei suoi procedimenti fu più terribile di quella che dava i catecumeni in pasto alle belve del Circo. Se mi è consentito, una procedura pìù lenta ed impietosa delle camere a gas naziste!
Sull’Inquisizione si sono scritti volumi a centinaia, dall’una e dall’altra parte della barricata; sterile ogni tentativo di trovare delle giustificazioni o delle attenuanti alla barbarie, dei processi e alle atrocità delle torture. È il caso, per esempio, dello storico francese Jean Pierre Dedieu, il quale, pur confessando che “leggendo la storia di certi casi, ho pianto di commozione davanti alla grandezza di un martire, o di rabbia vedendo cosa si perpetrava in nome di Cristo”, respinge “l’uso qualsiasi di una pagina di quest’opera, fuori del suo contesto”. Nel senso, cioè, che citando alcuni episodi raccapriccianti, storicamente incontrovertibili, si ha l’obbligo di citare pure le sue giustificazioni, anche se illogiche e non pertinenti e, pertanto, non condivise20.
Giovanni Modica Scala
—— Prima parte —- continua sul prossimo numero di marzo
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1. Rocco Pirro: Sicilia sacra disquisitionibus et notitiis illustrata. Panormi, apud haeredes Petri Coppulae, 1733. Tomo I, f. 685.
2. Placido Carrafa: Prospetto corografico istorico di Modica. Nella traduzione, con commento e note, di Filippo Renda. Tip. M. La Porta, Modica, 1869, p. 75.
3. Negli atti, dal 1500 in poi, venne appellata con il titolo di Venerabile Basilica, per la sua notevole antichità. Il 14 dicembre del 1570 passò a succursale della parrocchia di San Pietro, con bolla del vescovo di Siracusa, sino all’8 dicembre del 1923, data in cui fu elevata a parrocchia.
4. ‘Autodafé’ deriva dal portoghese e non dal castigliano.
5. Cfr. J.P. Dedieu: L'Inquisizione. Ed. Paoline, Milano 1990, pag. 40. Rispetto a quella spagnola, l’Inquisizione siciliana può considerarsi del tutto mite. Nel solo anno 1481, i morti sul rogo a Siviglia furono 298 eretici cristiani e 2.000 ebrei sorpresi, o sospettati, a praticare ancora la religione ebraica, che avevano abiurata in favore di quella cristiana. Cfr. G. Modica Scala: Le comunità ebraiche nella Contea di Modica.
6. Nei diciotto anni del suo ministero inquisitoriale, Torquemada fece perire tra le fiamme più di diecimila vittime; ne fece bruciare in effige 6.860 e quasi centomila condannò alla pena della infamia, della confisca dei beni, della prigionia perpetua o del remo sulle galee, nei tredici tribunali dell’Inquisizione istaurati in Spagna. Cfr. A. Llorente: Storia critica dell'Inquisizione di Spagna; tomo I, pag. 261. Su Torquemada, cfr. G. Modica Scala: Le comunità, etc., pp. 329-30
7. Fu bruciato vivo, senza cioè essere stato prima strozzato, al Piano di S. Erasmo di Palermo, il 22 marzo 1732, dopo nove anni di prigionia in carcere duro, che lo avevano ridotto un povero demente. L’ultima vittima dell’Inquisizione di Spagna, fu bruciata viva sul rogo di Siviglia, il 7 novembre 1781 “comme ayant fait un pacte et entretenu commerce charnel avec le Démon”.
8. Cfr.: “Concordie tra il Tribunale del S. Officio e li Tribunali secolari”. Stamperia A. Epiro, Palermo 1735, p. 30.
9. Storia e cronaca tacciono i nomi dei Commissari che si susseguirono nella Contea di Modica. Con la sola eccezione di don Filippo Zarba, di cui ho scoperto la tomba nella chiesa di S. Maria della Croce in Scicli che, nel 1622, era Priore del convento annesso alla chiesa e Commissario della Santa Inquisizione. Cfr. G. Modica Scala: La Madonna di Sion, p. 15.
10. Le prigioni e le camere di tortura del Tribunale del Santo Offizio di Palermo erano allogati nello Steri, il palazzo-fortezza edificato dai Chiaramonte, conti di Modica. Sulle prigioni e sulle testimonianze degli inquisiti, graffite sui muri, cfr. G. Pitré: “Del Sant’uffizio di Palermo e di un carcere di esso” (Soc. Ed. del Libro Italiano, Roma 1940). Costruito da Manfredi Chiaramonte, tra il 1307 e il 1320, lo Steri - dopo la morte sul patibolo di Andrea Chiaramonte, nel 1392 - fu scelto come reggia da re Martino e, poi, dai viceré, sono al 1517. Nel 1600, da re Filippo III, fu adibito come abitazione degli Inquisitori e come sede del Tribunale del Sant’Uffizio. Nei bassi furono ricavate le terribili prigioni e le camere di tortura. Nel 1799, lo Steri fu occupato dai Tribunali del Concistoro e della Magna Curia.
11. Eccezionalmente, qualche esecuzione veniva ‘celebrata’ anche a Catania, nel Piano del Duomo. A Palermo, i roghi si accendevano in Piazza della Loggia, nel Baluardo dello Spasimo o nel Piano di S. Erasmo. Questa immensa spianata era stata ricavata da una ampia porzione del parco privato di cui i Chiaramonte, conti di Modica, avevano dotato il loro magnifico palazzo-fortezza, detto Steri. Questa spianata fu restituita alla sua originaria destinazione, ad uso pubblico, ancor prima che l’Inquisizione venisse abolita, con la denominazione di Villa Giulia. Una lapide sull’entrata principale, ricorda l’avvenimento: “Riposo e conforto alle cittadine fatiche, / qui, dove giardino fu dei Chiaramonte / e dove l'Inquisizione accese i roghi, / sorgeva la Villa Giulia, nel 1738”.
12. In numerosi documenti della Contea, ogni “bandu et cumandamentu” emesso “da li spectabili et magnifici signuri officiali, iusticzeri et capitaneu”, in caso di infrazione, prevedeva la “pena di quatru o plui struppati di corda”. Il popolo indicava questo tipo di tortura come “a pena ri tocca e nun tocca”. L’autorità civile, oltre alle pene suddette, applicava anche quella del taglio di membra o la pena capitale, per squartamento o per impiccagione. La spada era riservata solo ai nobili. L’Inquisizione, per precetto divino, non poteva uccidere; si serviva perciò della giustizia secolare, per l’esecuzione che doveva comunque evitare ogni spargimento di sangue, per cui l’eretico condannato dall’Inquisizione veniva giustiziato mediante il rogo o lo strozzamento.
13. “Nel tormento della corda, si distinguevano cinque gradi: allorché il reo si conduceva alla corda e vi si legava; allorché si alzava da terra per breve spazio (tocca e nun tocca) ; trattenendosi alzato per un quarto d'ora; trattenendosi fino ad un’ora, con l’aggiunta di due o tre scosse, ossia strappate; quando a tutto ciò si univano i pesi di ferro attaccati ai piedi”. G. Arcieri: Storia del diritto. Tipo. Perrotti, Napoli 1853, p. 228.
14. C. Trasselli: Sull’espulsione degli ebrei dalla Sicilia. Palermo 1954, p. 135.
15. G. Modica Scala: Le comunità ebraiche nella Contea di Modica, Ed. Setim, Modica, p. 355.
16. Idem, ibidem, pp. 437-38.
17. F. Renda: Il Sant’Ufficio in Sicilia, in ASSO 1988, p. 25.
18. I modicani bruciati sul rogo furono: Antonio Lauria, Giacomo Turato e Giovanni Potino; giustiziati in effige furono Antonio lurato, Thomas lurato, Anna Lauria, Flora Ricotta, Girolamo Ricotta, Giovanni Guagliazzo, Giovanni Guagliazzo e Giacomo Guagliazzo. I ragusani giustiziati in effige furono Antonio lurato, Gabriele Spagnolo, Giacomo Amato, Lorenzo Cappello e Ranieri Pastorella; bruciati sul rogo, nello “Spettacolo” del 14 luglio 1529, furono Antonio Casacho e Contessa Casacho (quest’ultima, catturata nel 1527, era riuscita a fuggire dal carcere ma, catturata di nuovo, fece la stessa fine di Antonio). Altri due, bruciati assieme, furono Caterina Malaventano e Giovannello Ferrante: neofiti, relassi e ostinati, rilassati in persona al capitano Pietro Bologna del braccio secolare, e bruciati nello ‘Spettacolo’ della Loggia, il 31 dicembre 1530. Un mese prima era stato bruciato il neofita giudeizzante Giovanni Bernentano.
19. Secondo San Matteo (X, 34-37), Cristo avrebbe detto: “Non sono venuto a mettere pace sulla terra, ma la spada. Perché sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera; i nemici dell’uomo saranno quelli di casa. Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio e la figlia più di me, non è degno di me”. Onestamente, stento a credere a questa testimonianza del pubblicano Matteo.
20. J.P. Dedieu: L’inquisizione. Ed. Paoline 1990, pp. 6-7