Appendice di approfondimento
Don Ignazio La China, «Dibattito»,
sett. 2015 - maggio 2016

La recente apertura estiva del Convento della Croce ha riportato alla attualità il problema circa la nascita e l’evoluzione storica del complesso della Croce nel suo insieme, a partire dal piccolo oratorio decorato con gli affreschi ora conservati presso la chiesa di Santa Teresa a Scicli e che hanno incuriosito tanti visitatori e che meriterebbero migliore collocazione.
Su come si sia formato il complesso della Croce si sono fatte tante ipotesi, se ne sentono tante in giro e c’è chi lavora pure di fantasia! (...) L’idea che mi sono fatta, cercando di ordinare i vari dati che abbiamo in possesso, è che ci troviamo davanti ad una successione di fasi che cercherò brevemente di delineare.
In principio, sulla cima della collina che si staglia a fianco dell’altra denominata di San Matteo, viene edificato un piccolo oratorio dedicato alla Croce. Accanto ad esso viene elevata una croce a custodia e protezione della città di Scicli (in uno degli affreschi ex voto dell’oratorio si vede la croce grande in legno sullo sperone del colle e la campana inserita nel muro di cinta del cortile dello stesso oratorio). Da qui la collina prenderà nome “della croce” anche se primariamente viene detta “della Yssa/Issa/Gissa/ Gipsa”, sicuramente con riferimento a giacimenti di gesso: ricordiamo che fino ad oggi una parte retrostante della collina, vicina al convento dei Cappuccini, è detta “del gesso” perché poi appunto vi fu impiantata una miniera di gesso (anche il Carioti al suo solito cercherà al nome ascendenze più dotte e mitologiche).
  Con ogni probabilità siamo intorno al 1450 o subito dopo, quando si stabilisce di farvi un oratorio (il Carioti riporta atti del 1472, 1483, 1485 per l’acquisto del terreno e la licenza di edificare il primo convento): ricordiamo che negli anni tra 1470 e 1490 a Scicli c’è il “boom edilizio delle chiese”, giacchè è il periodo in cui tutte le confraternite, tanti altri laici e chierici e ordini religiosi, decidono di erigere le loro chiese. Il primo ventennio del ‘500 a Scicli è tutta una “marammata”, una fabbrica di chiese.
Il luogo dell’oratorio della Croce è stato scelto quasi sicuramente da alcune persone che facevano riferimento all’esperienza spirituale francescana: ricordiamo che proprio qui il francescano Giovanni Murifet stabilisce il suo romitorio in una grotta, che adesso si trova sottostante al convento, nella quale ci si calava dall’alto e che costituisce un legame fortissimo con la tradizione anacoretica greca presente nella nostra terra (fra l’altro ancora poco studiata e conosciuta). 
Ma potrebbe anche essere che in quel luogo vi fosse già una primitiva cappella di tradizione cistercense (gli eremiti si collocavano sempre presso oratori preesistenti: si veda l’esempio di san Guglielmo o dell’eremo delle Milizie) come suggerisce il Carioti: ricordiamo che questi cistercensi furono introdotti da Ruggero per l’impegno preso col papa di “latinizzare” i luoghi dove persisteva il rito liturgico bizantino. Questo spiegherebbe la successiva aggregazione alla Basilica Lateranense, che, ricordiamo, è la cattedrale del Papa: sarebbe un riconoscimento della “romanità” e fedeltà al papa dei fedeli che avevano edificato l’oratorio. L’aggregazione è un fatto spirituale che non comporta autorità o giurisdizione (è solo la possibilità di poter usufruire di alcune indulgenze e altri privilegi) e nemmeno proprietà, per cui ad esempio chi cerca atti di proprietà del convento o cessione di proprietà al Laterano va fuori strada, così come si inganna chi ha creduto di riconoscere in uno stemma della facciata quello della Basilica lateranense perché lo stemma della Basilica è costituito dal celebre “ombrello” pontificale e non da scudi araldici.
Un recente studio di Francesco Pellegrino chiarisce che lo stemma attribuito alla lateranense è semplicemente lo scudo della famiglia Bellamagna, soprintendente per conto dei Conti di Modica.
Qualunque sia stata l’origine, qui si stabilisce un piccolo gruppo dell’Ordine della Penitenza, cioè del Terz’Ordine Francescano. La comunità dei terziari vive nel primitivo piccolo convento con i frati minori francescani: ricordiamo che i terziari sono laici, per cui debbono esserci dei sacerdoti che celebrino la messa per loro (il Carioti ricorda il prestito di una pianeta di San Matteo nel 1472 e 1484).
Ma i frati e terziari litigano e si separano: nel 1486 infatti i frati minori ottengono dai Giurati la chiesa della Madonna della Scala, vicino alla “scala del Padreterno”, dirimpetto alla collina della Croce e poi edificheranno la loro chiesa “Santa Maria di Gesù” giù al piano insieme al convento, dove si trova attualmente, mettendo insieme due piccoli oratori dedicati a san Rocco e a san Sebastiano.
I terziari invece rimangono alla Croce. 
Non sappiamo quando il francese Murifet arrivi a Scicli. Ma certamente sarà stato l’arrivo del Murifet a ridare impulso all’oratorio e alla devozione per la Croce. Sono attestati infatti richieste e concessioni di indulgenze per la festa della Santa Croce da lui ottenute sia nel 1506, sia nel 1514. Ricordiamo infatti che, almeno per tutto il ‘500 e per buona parte del ‘600, il colle è detto sempre “della Croce” e in tutti gli atti sia l’oratorio che il convento sono detti pure “della Croce”: il titolo di “santa Maria della Croce”, come riporta il Carioti tra i vari titoli della chiesa,  rimarrà sempre a livello popolare, anche se la devozione alla Madonna è attestata già, come vedremo, nei primi decenni del ‘500. D’altronde fino ad oggi si dice comunemente “colle/chiesa della Croce” e non “della Madonna della Croce” e non dobbiamo trascurare il persistere della tradizione nel linguaggio popolare.
 Il culto originario e principale rimase dunque sempre e solo quello della Croce: così la festa, fin quando rimase aperto al culto l’oratorio, nel secolo scorso, fu celebrata il 3 maggio con grande solennità con eventi religiosi e popolari (si pensi alla concessione della franchigia da parte dei Conti di Modica per la fiera e mercato che che si svolgeva sul piano del convento) che duravano tutta la prima decade di maggio.
È interessante infatti notare come nella concessione dell’indulgenza (il cui decreto ho trovato nell’Archivio storico della Curia di Siracusa) che il Vescovo Giacomo Umana, vicario generale di Siracusa, fa il 2 maggio del 1514 venga detto che «…  in dicta terra Xichili in monte di la gissa nunc nuncupato vocabulo in monte syon est quaedam venerabilis locus  et devotionis  vbi depicta est imago cruchifissi et vexillum sanctae crucis domini nostri Jesu Christi ad quem totus confiteri devotus populus dicte terre»: c’è cioè solo il “vessillo” della croce con l’immagine del Crocefisso dipinta e il clero e il popolo vi si recano processionaliter il tre  maggio di ogni anno nella festa dell’Invenzione (cioè del Ritrovamento della Croce ad opera di Sant’Elena). 
Notare come non si parli ancora di devozione alla Madonna e come è detto che il “monte di la gissa” “nunc”, cioè ora, sia chiamato col nome di “monte Syon”: quindi il cambiamento del nome risale a questo periodo.
Così nel successivo 1515, nell’atto con cui fra’ Giovanni Murifet fa donazione a Fra’ Giovanni Schifitto, Guardiano del Convento di Santa Maria di Gesù di Modica, di tutto il complesso della Croce, viene detto che il Murifet fa donazione del monte “nuncupato” cioè denominato “monte Sion” con la  “cappella Sante Crucis”. E poi nell’atto della presa di possesso di fra’ Giovanni Schifitto, redatto dal Notaio Bartolomeo Terranova Cannariati viene detto “loco uocato di la gissa di montj Sion dila  Cruchj”.
Da notare come lo stesso luogo qui abbia tre nomi. Se è immaginabile che il primo nome sia “la gissa” e comprensibile l’ultimo “dila cruchi”, non si comprende da dove derivi il titolo di “Montj Sion”. Nome poco usato in Occidente e che richiama i luoghi santi di Gerusalemme: sul monte Sion cristiano si colloca il luogo del Cenacolo e della dormitio Virginis. Qui ci fu la prima sede dei frati francescani a Gerusalemme e il custode di Terrasanta assume il titolo di Guardiano del Monte Sion. Quindi è un nome che richiama la presenza francescana e opera un collegamento coi Luoghi santi e forse qui bisogna cercare anche il rapporto con la statua della Madonna impastata con la terra dei luoghi santi di Gerusalemme e del Monte Sinai: cioè con la terra “santa” usata come “reliquia”, secondo un uso dei pellegrini conservatosi fino al presente. Sarà questa statua ad essere collocata nell’oratorio ad opera del Murifet. Nell’atto della presa di possesso infatti viene esplicitamente detto: «In qua quidem cappella est reponenda quedam ymago gloriose Virginis Marie quae edificatur jn ecclesia Sancte Grippine de misturis locorum sanctorum Hierusalem et montis Sinaj”, cioè “nella quale specifica cappella è da riporre una certa immagine della gloriosa Vergine Maria che viene fatta nella chiesa di Santa Agrippina da una mistura [di materiali] dei luoghi santi di Gerusalemme e del Monte Sinai»
Sarà questa la statua venerata poi col titolo di “Santa Maria di la Cruchi”. 

 

Non si può fare una lettura ingenua dei documenti che ci troviamo ad avere tra le mani. Ad esempio, riguardo all’oratorio, troviamo da una parte una donazione del terreno da parte dell’università, poi alcuni acquisti da parte di privati e poi l’acquisto da parte del Murifet che cederà in seguito tutto il complesso al Guardiano di Modica P. Schifitto… ma c’è poi una supposta cessione da parte della basilica del Laterano: ecco, questo documento mi ha incuriosito e una breve ricerca in internet mi ha fatto scoprire che nella frazione di Mazzaferro del Comune di Urbino nel 1529 la confraternita di Santa Maria de Cruce erige la chiesa di Santa Maria de Cruce su terreno della Basilica Lateranense con modalità simili alla nostra. Può essere che sia una coincidenza? Non lo credo… spesso uno stesso atto era “giocato” più volte! 
Perciò credo che, se non si troveranno atti originali in futuro, la domanda sull’origine dell’oratorio rimarrà sospesa. 
Ricordo poi che nella parte precedente ho citato una concessione di indulgenza (e stranamente la concessione del Vescovo Umana di Siracusa è indirizzata al Murifet quando generalmente sono indirizzate alle chiese e cappelle e altari…) ma che ha come destinatari tutti i fedeli di Scicli: «Jacobus Humana episcopus, vinuersis et singulis utriusque sexus christi fidelibus incolis et habitatoribus terre Xichilj dioecesis syracusanae  …  salutem in domino sempiternam». Qui si parla di “luogo” dove c’è una croce dipinta con l’immagine di Cristo crocifisso e dove si reca la gente in pellegrinaggio il tre maggio: «Cum in dicta terra Xichilj in monte dila gissa nunc monte mutato vocabulo in monte Syon est quodam venerabilis locus  devotionis vbi depitta est inmago cruchifisi et vexillum sante crucis domini nostri Jhesu Christi ad quem locum contendunt divote populi dicte terre».
  Si noti come si dice che “ora il monte della gissa ha mutato nome in monte Syon”: quindi il cambiamento è recente. Siamo nel marzo 1514 e non solo viene detto che il monte cambia nome, ma nella concessione è detto pure che una delle condizioni per lucrare l’indulgenza è «manus ad frabicam ipsius loci porrigere» cioè  “dare una mano alla fabbrica del luogo”: «inde volentes dicti populi ad dictam deuotionem exortare et animare … concedimus ex autoritate ordinaria jndulgentiam in singulis annis jn festiuitate sante crucis … tam in primis vesperis quam in secundis celebratis … … loco ingredi et die festivo et clerus et populus devote processionaliter accedere … christi fideles promptius et devotius locum preditto valeant visitare  et manus ad frabicam ipsius loci porrigere».
Ma nell’oratorio così come noi lo conosciamo, non c’è nessuna traccia di questa croce: il vessillo di cui si parla è la croce di legno che si vede negli affreschi? Il luogo di cui si parla nell’indulgenza (non si parla né di chiesa né di cappella) è lo spazio dove si sta costruendo l’oratorio? Nell’indulgenza si parla infatti di dare una mano alla fabbrica, come opera penitenziale: singulis christi fidelibus vero penitentibus et confessis. 
Non sarebbe strano che qui si faccia riferimento proprio alla pratica penitenziale dell’aiutare a costruire le chiese, magari portando ognuno una pietra: tra l’altro la tradizione ricorda a Scicli la penitenza di salire al Calvario e alla Croce portando ognuno una pietra nella settimana santa, e nell’indulgenza sono indicate anche le feste di Pasqua, Ascensione, Pentecoste e della gloriosissima Vergine Maria. 
Comunque, che ci sia in atto la costruzione di una cappella, ancora da completare, lo si evince benissimo nella cessione di proprietà del Murifet e della presa di possesso dello Schifitto. 
La cappella è quella di cui lo Schifitto prende possesso e di cui il Notaio Terranova redige il verbale su richiesta dello stesso Schifitto: 
«Pro fratre Joanne Schifitto. 
xxij aprilis, 3e Inditionis, 1515, apud Siclum. 
presentibus nobile Antonio de Cultraro, nobile Antonio Firraro, magnifico Joanne de Mauro, Antonio Tauormina, nobile Johanne Antonio Baxetto.
Reuerendus frater Joannes de Ischifitto, guardianus venerabilis conuentus Sancte Marie de Jhesu, terre Mohac, presens velutj  et tamquam donatarius venerabilis Joannis  Murifet ordinis Santi Francisci,
in bonis dictis fratris Joannis Murifet et specialiter in quodam loco uocato di la Gissa di montj Sion dila  Cruchj, terrio Siclj, uigore donationis asserte et stipulate jn actis egregij notarij Maurj de Pisano olim dictis, 
nos rogauit tamquam publicus scriba ut actum jnfrascriptum scriberemus adnotaremus et conficeremus:
videlicet quod, hoc predicto die, dictus reuerendus frater Joannes donatarius, presens virtute dicte donationis accepit et recepit possessionem  corporalem dicti loci dila Gissa  et de montj Sion dila Cruchj, suis finibus limitatis pro ut jn dicta donatione, confinantis maxime cum uinealj heredum quondam nobilis Antonij de Eritiis, uinealj Antonij Niculosi, aliisque.
Et hoc [= actus possessionis factum est] per ingressum jn dictum locum, per tactum et amplexionem venerabilis et salutifere crucis, per ingressum et egressum intus cappellam inceptam et non (dum?) ad (huc?) completam, nec non per complessionem clauis arche dicte venerabilis crucis. 
In qua quidem cappella est reponenda quedam ymago gloriose Virginis Marie quae edificatur jn ecclesia Sancte Grippine de misturis locorum sanctorum Hierusalem et montis Sinaj.  Et hoc [ = actus donationis est] cum omnibus prouenientibus juribus et actionibus, emolumentis et lucris dicte ecclesie.
Presentibus etiam in his magnifico Bernardo de Bellamagna capitaneo, nobile Tuchio Denaro et Antonio de Alfano juratis terre Siclj et dicto venerabile fratre Joanne donatore atque consentientibus et eorum consensum assensum prestantibus.
Unde ad futuram rey memoriam et ad requisitionem dicti reurendi factus est publicus actus per me notarius Bartolomeus de Terranova publicus scriba>>

L’atto riportato dal Carioti è quello trascritto in un estratto ad opera del notaio Carlo Damiata. Non si comprende se sia il Damiata ad apportare alcune variazioni o il Carioti a riportare l’atto con parti errate o sia la trascrizione del Cataudella: io ho potuto ricostruirne il testo a partire dall’originale conservato presso l’Archivio di Stato a Modica. 
L’atto è del XXII aprile, cioè 22 (e non 17 o 27 o 28 del Carioti) aprile, 3a Indizione 1515.
Il Cataudella fra le altre cose non capisce la natura dell’atto e non comprende di trovarsi davanti al rituale così come prescritto nel rituale romano e ancora in uso oggi ad esempio nella presa di possesso della chiesa da parte dei parroci. Secondo il diritto romano la presa di possesso è “corporale” per cui lo Schifitto deve recarsi nel luogo da possedere, entra ed esce dalla cappella che gli viene donata, prende in mano e bacia la croce che gli viene presentata davanti alla porta, riceve la chiave ed apre e chiude la cassa dove è conservata la croce (i parroci aprono e chiudono la porta del tabernacolo): il tutto davanti allo stesso Murifet, ai testimoni e ai Giurati (che il Cataudella scambia per curati!) di Scicli che fanno da garanti, insieme al Capitano dell’Università. 
E dunque sarà opera del Murifet anche  la ricostruzione dell’oratorio nella forma attuale a partire dal  1510, secondo un altro atto che riporta il Carioti, con la ridefinizione dell’oratorio e la collocazione in esso della statua della Madonna e il collegamento dell’oratorio con il convento e la chiesa nuova. 
E siccome gli affreschi (almeno il ciclo degli ex voto e delle Madonne) rispettano questa nuova situazione architettonica, c’è da ritenere che siano stati compiuti proprio in questo periodo, o quanto meno iniziati. La sistemazione della parete orientale, con l’altare e la nicchia della Madonna sarà stata ultimata nel 1519 perché è proprio questa la data che da qualche anno si legge nel cartiglio che corre lungo l’arco della parete e che la caduta di alcuni stucchi in questi ultimi anni ha reso possibile vedere: nel lato sinistro si legge “SALVE REGINA”, nel lato destro si legge “MCCCCCXVIIII”. Questo confermerebbe la data del Carioti che riporta un atto del 25 marzo 1518 per l’ampliamento della chiesa.  

 

Qualunque sia l’origine dunque, è indubbio che nella seconda decade del ‘500 il nostro oratorio avesse già una sua conformazione vicina a quella attuale. Io da profano distinguerei due fasi: la prima in cui l’oratorio, di forma rettangolare  è ancora isolato e presenta la piccola porta di ingresso aperta nel lato corto, ad Occidente, in modo che l’abside col suo altare si trovino ad Oriente dirimpetto alla porta di ingresso.
Ricordiamo che già la direzione liturgica sentita come obbligata è indice della antichità dell’oratorio. Ai due lati lunghi a Mezzogiorno e a Settentrione sono aperte due finestre. Il piano dell’altare è separato dal resto della chiesa da un gradino che occupa all’incirca un quarto del pavimento dell’oratorio così che il sacerdote possa celebrare comodamente all’altare coram Deo. 
È mio parere che il ciclo decorativo più antico sia quello in cornu epistolae cioè alla destra di chi entra in chiesa ed è rappresentato dalle varie immagini mariane affrescate alle pareti: lo dico perché la pittura si adegua alla presenza della finestra per cui troviamo un’immagine mariana più piccola rispetto alla altezza delle altre.
  Può anche essere che le immagini dirimpetto, in cornu evangelii, quelle degli ex voto, siano coeve, mentre credo che gli altri affreschi siano stati fatti in epoca successiva, quando l’oratorio subì alcune modificazioni: si murarono sia la porta di ingresso (e se ne aprì una laterale che immetteva alla chiesa annessa e al convento, a meno che questa non fosse già presente come porta di servizio dell’oratorio per il prete ed il sacrista) sia l’altra finestra sulla parete esterna, così che si ricavarono altri spazi da poter affrescare: troviamo qui infatti le immagini di Gioacchino e Anna, di altri santi, di Guglielmo e Corrado, della Messa di Papa Gregorio e del cartiglio delle indulgenze. 
Mi permetto di dare qui una mia lettura delle immagini presenti nell’oratorio
Cominciamo dalle Madonne. Anzi, prima ancora, la parete inizia – entrando dalla nuova porta di ingresso laterale - con l’immagine di San Michele, l’arcangelo che guida le milizie celesti: e infatti lo vediamo rivestito con una splendida armatura da cui spiccano due ali policrome che contornano la testa e il volto dell’angelo a mo’ di aureola. È in piedi, alla sinistra lo scudo, nella destra doveva imbracciare la spada o la lancia con cui sconfigge il diavolo ai suoi piedi. In fondo un paesaggio rupestre. Ricordiamo che la devozione a San Michele nel medioevo è particolarmente diffusa e sentita. Non c’è chiesa che non abbia un altare a lui dedicato o paese e città che non abbia una chiesa a lui intitolata. Anche a Scicli la chiesa di san Michele (edificata dalla confraternita omonima) nel ‘500 è tra le più grandi e ricche della città. L’immagine ha gli occhi rivolti in basso: certo ai suoi piedi ci doveva essere l’immagine del diavolo, e se non fosse per la diversa impostazione delle ali, tutta la figura farebbe ricordare il San Michele di Monte sant’Angelo.
La seconda immagine è quella della Madonna della Catena. Una immagine e una devozione tutta palermitana. Non staremo qui a narrarne le origini. Basti sapere che nel giro di pochisssimo tempo questa Madonna divenne tra le più venerate in tutta l’isola. A Scicli avremo una chiesa rupestre a lei dedicata, ma l’altare più bello e ricco in suo onore si trovava nella chiesa di San Michele. A guardare bene l’affresco, ai due lati del trono della Madonna a sinistra si vede l’inizio di un declivo che continua poi a destra nella immagine di una alta rupe e montagna: è il monte Pellegrino di  Palermo così come si vede dalla zona del porto dove si trova la prima chiesa della Madonna della Catena. La Madonna è in trono e sul ginocchio destro tiene seduto il Bambinello nudo: la Madre tiene tra le mani una catena che scende poi in basso tenuta da entrambe le mani dal Figlio e poi continua a scendere. Una pala lignea conservata nella chiesa di san Bartolomeo ci aiuta a leggere l’immagine: anche lì la catena è tenuta per mano ma in un capo ai piedi della Vergine è incatenato il Drago anticico, l’immagine satanica dell’Apocalisse. Credo che stia qui il vero segno della catena, avvalorato dal fatto che il bimbo è nudo per sottolineare la verità carnale del mistero dell’incarnazione. È la donna dell’Apocalisse che incinta e poi col parto del Figlio riesce a sfuggire e vincere gli attacchi di Satana. Non per niente la Madonna della catena è invocata da tutte le partorienti! Anche qui come per San Michele il richiamo è alla lotta contro il Maligno.
Accanto troviamo la immagine, quella della Madonna della Croce, in piedi con il Figlio in braccio nella sua sinistra che tiene una piccola croce con entrambe le mani, croce sostenuta pure da Maria alla base con l’altra mano. Dietro il trono anche qui a destra lo scorcio di un paesaggio che potrebbe essere proprio quello del colle della croce con l’immagine dello stesso oratorio. Qui il Cristo ha la tunica e il fatto che tenga la croce in mano richiama tutta la tradizione iconografica greca prima ma poi anche occidentale in cui il fatto che il Bambino tenga in mano (o gli angeli gli mostrino) i simboli della passione sta a significare la consapevolezza del suo futuro destino di dolore e morte. E anche Maria è compenetrata in questo mistero della croce.
Infine ci troviamo davanti all’immagine della Madonna della Misericordia. Anche qui una devozione medievale nata in ambito cistercense e poi diffusasi negli altri ambiti monastici e presso tutto il popolo. Il tema di Maria che copre col suo manto quanti – chierici e laici, ricchi e poveri - si rifugiano sotto la sua protezione è famoso e tanti artisti famosi lo hanno ripreso. Qui alle spalle della Vergine non c’è più il trono ma il muro che funge da parapetto dietro il quale si intravvede uno scorcio roccioso e poi un paesaggio in lontananza, in cui qualcuno ha intravisto la Scicli medievale: in verità la chiesa in primo piano sembra quella della san Matteo romanica, ma se anche non lo fosse il richiamo alla protezione della città è chiaro. Fra l’altro ricordiamo che nella prima puntata abbiamo fatto riferimento ad un possibile oratorio cistercense prima dell’attuale, a voler credere agli storici antichi nostrani. 
La domanda sugli autori la giro ai nostri esperti di arte, mentre forse si potrebbe chiarire il ruolo dei committenti, perché troviamo in alcune immagini la scritta FECERUNT F: oppure F:F: che certo si deve sciogliere in FECE/FECERO FARE cui seguono alcuni nomi. L’idea dei donatori è supportata dal fatto che ad esempio nella Madonna della Croce, troviamo accanto al cartiglio della commisssione anche la figura di una donna in ginocchio, piccolissima rispetto all’immagine della Vergine: ma era questo il modo in cui i devoti donatori si facevano ritrarre nelle tele donate alle chiese.
Ci sarebbe poi da chiedersi se il piano iconografico di questa parete risponda ad un progetto originario oppure se, per così dire, la parete è stata affrescata a mano a mano che si facevano avanti i donatori e magari seguendo le loro devozioni. 
Potrebbe essere l’uno e l’altro. Credo si possa pensare anzitutto ad una lettura fondata su un dato di fatto: il desiderio di accreditare la devozione alla Madonna della Croce fra le devozioni più famose, nell’Isola e oltre.
Per questo dall’altro lato, nella parete dirimpetto verranno dipinti gli ex voto: come a dire “guardate che la nostra Madonna è altrettanto miracolosa e famosa quanto la Madonna della Catena e la Madonna della Misericordia!!!”. E infatti si parla non solo di miracoli successi a Scicli ma anche a Terranova, verso chi si reca nel suo oratorio ma verso chi anche è rimasto a casa ammalato (basterebbe questa notazione per dire come siamo qui nel pieno sviluppo della devozione medievale ai santi, ma non è questo il luogo per approfondire tale questione).
Ma se si pensa poi che la successione delle immagini, entrando invece dalla porta originaria, veniva letta al contrario di come noi l’abbiamo descritta, credo vi si possa leggere anche un altro invito: «volete una protezione, la città cerca protezione?Rifugiatevi sotto il manto di Maria! Maria vi unirà alla vittoria della Croce del Figlio e vi aiuterà a spezzare le catene del male e a vincere il Tentatore che l’arcangelo Michele tiene soggiogato per ordine di Dio!!!».
Come il Figlio vince il male con la sua croce e come i fedeli sono liberati, lo diranno poi con la raffigurazione della Messa di Papa Gregorio, ed è quanto vedremo nella prossima puntata. 

Continuando la nostra visita dell’oratorio della Croce, ci troviamo davanti ad un grande affresco, nella parete di sinistra guardando l’altare, dirimpetto alle immagini delle Madonne viste l’altra volta: è questo un affresco composito, in quanto riassume tre temi iconografici molto sviluppati nella devozione medievale. Si tratta anzitutto della imago pietatis o del cosiddetto “Cristo in pietà”, cioè del Cristo morto, raffigurato a mezzo busto prima, poi a tre quarti, poi anche tutto intero, che emerge dal sepolcro: è in principio solo, poi accanto vi troviamo la Madonna e san Giovanni (a volte la Maddalena), anche questi prima a mezzo busto e poi a figure intere, in atteggiamento di compassione verso il Cristo Morto. 
Il tema della imago pietatis fu poi ampliato con l’inserimento degli arma Christi: cioè dei simboli della passione. 
Per una riflessione sul significato della meditazione sulla passione di Cristo e sulla nascita delle devozioni e dei riti legati alla passione mi permetto di rimandare al mio studio su Le feste del Signore.
Qui ricordo come gli arma (nel senso di simboli considerati come gli stemmi nobiliari di Cristo) sono la rappresentazione plastica dei singoli momenti della passione attraverso il rimando di una parte per il tutto (nel nostro affresco infatti si vede il bacio di Giuda, la cattura di Cristo con lanterne e bastoni, lo scherno verso il Cristo, gli schiaffi, gli sputi, il rinnegamento di Pietro con la serva e il canto del gallo, la flagellazione, la coronazione di spine, il lavabo di Pilato, la crocifissione, il buon ladrone, il sole e la luna alla morte di Cristo, il vaso con la mirra per l’unzione del corpo di Cristo…), ma sono rappresentati anche gli strumenti specifici della passione (la canna come scettro regale, la corona di spine, i chiodi, la lancia che trapassa il costato, la spugna imbevuta di aceto in cima alla canna, le corde, il corno e la tromba dei soldati…).
Nel nostro affresco gli arma Christi fanno da sfondo alla scena e si fondono col tema del Christus patiens e della crocifissione richiamati dal sepolcro posto sulla sinistra e dalle due figure della Vergine Addolorata a sinistra e di San Giovanni alla destra, raffigurati questi a figura piena, quasi a fare da cornice alla rappresentazione e sono collocati in modo da fare da cerniera tra la scena alle spalle nel cui piano è collocato il sepolcro con Cristo accanto e i simboli a fare da sfondo e l’altare posto in primo piano ma sottostante al precedente. La scena è quella usuale di Maria e Giovanni accanto al Crocifisso, così come è raccontata nel vangelo di Giovanni. Solo che qui abbiamo una sorpresa: al centro non c’è il Crocifisso ma c’è il Cristo risorto! Perizoma bianco (segno della divinità), mantello rosso (segno della passione ma anche della regalità), il Risorto regge con la sinistra la croce trasformata in vessillo di vittoria e non più strumento di morte e con la destra indica la ferita al costato (il richiamo è alla incredulità di Tommaso e all’invito di Cristo a mettere la mano nella ferita del costato). 
Perché questo passaggio tematico dal Crocifisso al Risorto? E’ spiegato nella scena sottostante, dove è raffigurata quella che, secondo la tradizione è detta “la messa di Papa Gregorio”
Secondo la tradizione (una leggenda nata nel 1400) un giorno mentre celebrava la Messa, San Gregorio Magno, (è il papa Gregorio I della serie, siamo negli anni a cavallo tra secolo VI e VII, e non il Gregorio XII come qualcuno ha sostenuto), ebbe la apparizione del Cristo sofferente sull’altare. È chiaro l’intento della pia tradizione: ribadire non solo la realtà oggettiva della transustanziazione, ma anche quello di riaffermare la Messa come reale memoriale del sacrificio di Cristo sulla croce, come insegna il catechismo: ogni volta che si celebra la Messa si rinnova il mistero della passione del Signore, anzi di tutta intera la Pasqua, Passione – Morte – Risurrezione. Come ancora oggi si acclama nella Messa: “annunziamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione”. Tutto ciò è sapientemente descritto nel nostro affresco, quasi una lezione di catechismo per immagini.
Il papa è raffigurato in ginocchio in adorazione davanti all’altare, con la “cassubula” sopra il camice bianco e il manipolo che pende dall’avambraccio sinistro. Le braccia spalancate del papa richiamano la preghiera liturgica del canone romano durante la messa. L’altare è ricoperto, secondo la tradizione cattolica, da una bianca tovaglia di lino, sul davanti dell’altare un paliotto di stoffa decorata a fiori secondo l’uso medievale. Sull’altare al centro il corporale quadrato, così detto perché vi si poggia il corpo di Cristo. Ai lati sull’altare le due candele, e poi a sinistra il leggio con il messale, e a destra il calice con sopra la patena e l’ostia, e ancora accanto il triregno papale, cioè la tiara con le tre corone. Alla destra un ministrante in ginocchio pronto per servire la messa: sopra la sua testa nella nicchia della parete si vedono le due ampolline con l’acqua e il vino, giacchè era proibito, in segno di rispetto, poggiarle direttamente sull’altare. Alla sinistra invece alcuni prelati che richiamano la corte papale (un cardinale in prima piano che tiene nella sinistra la croce arcivescovile, un vescovo con la mistria alle sue spalle, un canonico con la mozzetta di ermellino, altri chierici in lontananza): è certamente fuori luogo l’interpretazione di questi personaggi come di padri e dottori della Chiesa, come vorrebbe qualche lettura recente. Alla destra, sopra la mensola delle ampolline, un cartiglio con l’indicazione dell’indulgenza annessa all’immagine, di cui diamo una trascrizione corretta rispetto a quanto è detto in alcune pubblicazioni: 
CUI DIRA SECTI PATER NOSTRI
E VII AVE MAREI
INNANTI LA PIETATI
GUADAGNA PER OMNI VOLTA
CHINCUENTA MILIA ANNI DI INDULGENCIA
PER LI VENNIRI DUPLICATI
ET LU VENNIRI SANCTU INDULGENCIA A CULPA ET A PENA 
CONCESSIO 
PER PAPA GREGORIO

Cioè: Chi dirà sette Padre Nostro e sette Ave Maria davanti alla Pietà guadagna ogni volta cinquantamila anni di indulgenza, che nei venerdì sono raddoppiati e il venerdì santo l’indulgenza [è concessa] sia per la colpa e anche per la pena.
Papa Gregorio.
Il cartiglio conferma dunque di trovarci dinanzi alla immagine della Pietà come abbiamo detto sopra. Che fu tra le più diffuse nel tardo medioevo e nel primo periodo del Rinascimento. E come si vede, tra le più indulgenziate, per numero di anni. Da notare la dicitura circa l’indulgenza del venerdì santo che libera dalla colpa come anche dalla pena: siamo nella perfetta dottrina circa le indulgenze, che qui non spiegheremo, e che forse i nostri lettori non comprenderanno più nemmeno. Ci basti però sapere che i visitatori dell’oratorio, nel ‘500 invece la comprendevano appieno! E che dunque tutta l’immagine serviva da riepilogo di tutta la teologia cattolica circa l’efficacia redentiva del sacrosanto sacrificio della messa. Da lì a qualche anno sarebbe scoppiata la rivolta di Lutero contro le indulgenze. Ma a Scicli della tempesta che si prepara non si vede neanche il minimo segno! 

   

Nella stessa parete di sinistra dove si trova la messa di Papa Gregorio troviamo un cartiglio con la concessione di un’altra indulgenza. Nel dipinto il cartiglio è retto da un angelo di cui si vede il busto con le ali spiegate e le braccia distese a mostrare la pergamena. Il cartiglio è una fedele riproduzione della pergamenna che contiene la concessione delle indulgenze, sia nello stemma di apertura in alto in centro con con il volto di Cristo riprodotto secondo la tradizione greca del Mandilion (la nostra “veronica”), sia nella riproduzione del sigillo nell’angolo in alto a destra di chi guarda, a provarne l’autenticità. Peccato che la chiusa finale in basso si sia persa per la caduta di parte dell’affresco. Comunque gran parte del testo è ancora leggibile e quanto manca può essere ricostruito tramite trascrizioni fatte in precedenza negli anni passati.
Diamo qui il testo con qualche nostra correzione:
«Rafael Ostiensis episcopus
Dominicus Portuensis et Franciscus Tiburtini episcopi
Tomas Tituli Sancti Saturni in montibus
Antonius Tituli Sancti Vitalis
Benedito Tituli Sanctae Sabinae
et Laurencius Tituli Sanctorum Coronatorum presbiteri
Federicus Sancti Angeli
Marcus Sanctae Mariae in via lata
Amaneus in Sancti Nicolai in carcere Tuliano
Sigismundus Sanctae Mariae Novae 
et Alfonsus Sancti Teodari diaconi
Miseracione divina Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinales
Universis et singulis Christi fidelibus
qui pie devoteque
a quista santa ecclesia
cum li manu adiutrici
in li sequenti festi 
visitarannu d’un vespre al’altru inclusive
cum la misericordia di Dio concidimu et damu chentu iorni di vera indulgencia
cum annis milliabus et cento iorni quanti volti in quisti festivitati
videlicet: in la festa di la invencione di la sancta crugi a li tri iorni di maiu e ne li prim… 
inmaculata concecio beate Mariae Virginis»

Vediamo di fare ora qualche nota al testo.
I cardinali di cui parla il rescritto sono i seguenti: 
-          Raffaele Riario Sansoni, nominato decano del sacro collegio e perciò vescovo della diocesi suburbicaria di Ostia  il 20 gennaio 1511 - deceduto il 9 luglio 1521;
-          Domenico Grimani, nominato vescovo della diocesi di Porto Santa Rufina il 20 gennaio 1511 - deceduto il 27 agosto 1523;
-          Francesco Soderini, nominato vescovo di Tivoli il 27 giugno 1513 fino al 18 luglio 1516 quando fu nominato vescovo di Palestrina;
-          Tamás Bakócz, nominato al titolo presbiterale di  san Silvestro e san Martino ai monti dal 1500 al 1521;
-          Antonio Maria Ciocchi del Monte, nominato al titolo presbiterale di  san Vitale da1511 al 1514;  
-          Bandinello Sauli nominato al titolo presbiterale di   santa Sabina dal 1511-1516; 
-          Lorenzo Pucci nominato al titolo presbiterale dei   santi quattro coronati dal 1513-1524; 
-          Federico Sanseverino nominato al titolo diaconale  di   sant’angelo in pescheria dal 1º maggio 1510 – e dimesso il 30 gennaio 1512;  
-          Marco Cornaro nominato al titolo diaconale santa Maria in via lata dal 1513 al 1523;
-          Amanieu d'Albret nominato al titolo diaconale di  san Nicolò al carcere il 5 ottobre 1500 e deceduto il 20 dicembre 1520; 
-          Sigismondo Gonzaga nominato al titolo della diaconia di santa Maria nova nel 1513
-          Alfonso Petrucci nominato al titolo diaconale  pro illa vice  di san Teodoro il 17 maggio 1511 e dimesso il 22 giugno 1517.
La lista dei cardinali è importante perché mostra il turno del concistoro che aiutava il Papa nello svolgimento ordinario delle sue mansioni e qui ci aiuta ad identificare l’anno in cui la concessione è stata fatta e perciò anche indirettamente a datare l’affresco del cartiglio: e l’anno in cui furono sicuramente tutti nello stesso turno è il 1513-1514.  Quindi siamo proprio negli anni individuati già prima e che mostra la fervente attività di costruzione e abbellimento dell’oratorio. 
Un’altra indicazione in proposito ci viene dal testo della concessione. Qui la formula è uguale alle altre concessioni: il tempo (dai primi ai secondi vespri inclusi, cioè da un tramonto all’altro, secondo il computo liturgico della giornata); i giorni concessi (cento per la solita visita, anni mille e cento giorni nella festa della Inventio della Santa Croce il 3 maggio e poi per l’immacolata concezione di Maria l’otto dicembre).
Ma ci sono due particolarità da rilevare. La prima circa l’inciso <>, che potrebbe confermare quanto detto precedentemente in occasione della concessione della indulgenza da parte del vescovo di Siracusa: cioè la concessione è fatta non a chi visita solamente la chiesa, ma a chi va a dare una mano di aiuto nella costruzione della chiesa. 
La seconda, di carattere mariano: siamo in un periodo in cui ancora si disputa sulla immacolata concezione di Maria (il dogma sarà promulgato  a fine ‘800) ma già i francescani hanno scelto da che parte stare: infatti qui si scrive «inmaculata concecio beate Mariae Virginis» e sarebbe interessante sapere se tale titolo è presente pure nel testo originale della bolla o è una interpolazione del Murifet francescano! Comunque sia è un’ulteriore riprova della antichità del culto dell’Immacolata a Scicli. Prima e sopra qualsiasi altra devozione (si noti che non si parla nel cartiglio nemmeno della Madonna della Croce), checcè ne dicano tanti. 

   

È da tempo che a Scicli non piove. Non è la prima volta. Anche nei secoli passati la nostra città ha sempre sofferto di mancanza d’acqua, cosa che ha provocato siccità, carestia e mortalità di uomini e animali. 
Dato che stiamo parlando della Madonna della Croce, ecco due atti che ci parlano della pietà del popolo di Scicli che si rivolgeva a Dio per mezzo di Maria in tutti i momenti di prova.
Il primo è un atto interessante perché unisce due devozioni mariane: alla Madonna della Croce e alla Madonna dei Milici, invocate e processionate congiuntamente per scongiurare la fine della siccità: «A di 26 di Aprile 1670 –
E più tarì tridici a dominico parisi quali seli pagha per suo uiaggio di hauer andato nella città di Lentini da Monsignore Illustrissimo con lettere delli Illustri Giurati di questa per ottenere licenza di fare processione per conducere la Madonna Santissima della Croce e delli Milici ad effetto d’ottenere la pioggia per lo molto bisogno che tiene la campagna e questo per la molta istanza fatta dalli populi in giouamento di tutto il publico che con  questo appare mandato a di come sopra tarì tridici. tutti quattro li Illustri Giurati Micheli Sindaco»
.
Il secondo è un atto che descrive una esposizione straordinaria della statua per impetrare a Dio il dono dell’acqua per intercessione di Maria. 
È una nota spese, ma dietro vi si possono leggere le forme della devozione postridentina con l’esposizione del Sacramento e l’uso popolare delle torce nelle processioni mantenuto fino al presente (per non parlare dello sparo dei maschi!!!). 
«A di 14 di maggio 1674
E più onze tre e tarì ventitri a mattheo La Varca nostro vice sindaco quali se li pagano per altritanti de ordine nostro spesi per causa di hauere uscito la madonna santissima della Croce dentro la cappella doue e solito stare e quella si pose nel Altare maggiore della Chiesa di detto Conuento con la esposizione dello santissimo Sacramento doue in quello ci concorse tutto lo populo di questa Citta in deuotione grande per la gran mortilita di genti che giurnalmente morino in quista Città anmaladi e di morti subutania et di punturi senza nessuna ripara come anco per andare a pregare la Madre santissima che ci volesse mandare la gratia di laqua in questi tempi calamitosi per tutti seminerij de lanno presente. Videlicet: onza 1 e tarì 6 per rotula quattro di blandoni di cera biancha la quale servuio per tutto il tempo che fu esposta detta Madre Santissima con il Santissimo Sacramento a ragione di tarì 9 lo rotulo per scunchiutina di torci li quali si allegaro per acompagnare con tutta la nobiltà di Sicli lo Santissimo Sacramento; rotula dui et onze dudici tarì 24 item per loeri di detti torchi tarì 15; item per li trumbetti li quali sonaro in detta espositione tarì 4; item per portatura di detti torchi grana dui; item per maschi numero 50 tarì 4.10; item per la musica che si fece due volte per la messa cantata tarì 24; et una corda la quale seruio per attaccare la vara quando si uscio la Madonna Santissima della Cappella e si portao nello altare maggiore in tutto alla somma di dette onzi tre e tarì ventitre il tutto in servitio di questi populi e del culto divino e per donarci la gratia di quanto ci adomandamo; appare mandato et atto di recevuta in notaio Francesco Corbo die quo supra; tutti 4 Illustri Giurati – Laurifici sindaco»
.
Indirettamente qui troviamo anche un indizio sulla chiesa seicentesca: giacchè viene detto che la Madonna sta ancora nella nicchia della cappella, vuol dire che nella chiesa grande, l’attuale nicchia absidale è opera della ricostruzione settecentesca. Questa nota ci riporta alle variazioni che la chiesa ha subito nel corso dei secoli, ma di questo parleremo in seguito.

 

Chiusa la porta originaria di ingresso della parete occidentale, lasciando solo lo spazio per ricavarvi una finestra per dare luce all’ambiente interno (certo dopo che fu murata la finestra laterale con l’addossarvi la muratura dell’abside della chiesa), lo spazio ottenuto servì per collocarvi un affresco a più scene riguardanti il ciclo delle storie di Gioacchino ed Anna, secondo il vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo, dove si narra la nascita della Vergine Maria.
L’affresco è composto dalla lunetta nella parte superiore e da tre pannelli rettangolari longitudinali sottostanti.
La lunetta sopra questo affresco è molto deteriorata, comunque si individua una sua bipartizione, rimanendo la finestra in posizione centrale, con due pannelli laterali in entrambi ai lati lati. Dunque dovremmo avere nella lunetta quattro immagini o scene. 
Alla sinistra di chi guarda, nella scena del primo pannello laterale s’individua la figura di un uomo e la scritta IOACIN in primo piano e alla sua sinistra un pastore che indica Gioacchino che sta prostrato in adorazione. Si tratta sicuramente della scena di Gioacchino che pascola le pecore nelle campagne in cui si è ritirato per la vergogna di non avere figli e del suo incontro con l’angelo, come la racconta l’apocrifo. 
E così nell’altro lato della lunetta, sicuramente, secondo una consolidata tradizione iconografica, ci doveva essere la scena di Gioacchino che riceve dall’angelo l’invito a ritornare dalla moglie Anna oppure l’apparizione dell’angelo ad Anna che la invita ad andare incontro al marito che ritorna, come continua a raccontare il vangelo apocrifo.  Nel testo greco la porta di Gerusalemme è indicata con il termine tecnico specifico di Oraia (Ωραια=bella), ossia quella porta che si trovava precisamente nel Tempio, nell'Atrio delle donne. Una cattiva traduzione dal greco al latino deve aver fatto nascere, per assonanza della parola oraia con aurea, la denominazione di Porta d'oro. E proprio PORTA AUREA viene scritto nel nostro affresco, nel pannello rettangolare di sinistra, dove si vede Gerusalemme con la cinta delle sue mura e le sue torri sullo sfondo e in primo piano l’abbraccio tra Gioacchino ed Anna, identificate queste figure dalla scritta S. IOACINU e S. ANNA. Dietro questi alcune figure del popolo, un uomo a sinistra e una donna a desta, che assistono alla scena.
Nell’angolo a destra dello stesso episodio illustrato, troviamo, quasi sopra la testa di Anna, l’immagine di Maria che viene incoronata regina da due angeli, è la prefigurazione di quello che Maria sarà, così come è stato preconizzato dall’angelo ai due genitori.
Nel riquadro destro della lunetta, una nuova immagine della Madonna della Catena con in braccio sul ginocchio sinistro il Figlio e con in mano la catena tenuta per un capo anche dal Figlio. L’abbreviazione sulla sinistra della Vergine potrebbe essere sciolta in MATER DOMINI.
L’episodio di Gioacchino e Anna è inscritto in una cornice con medaglioni con busti di santi. La cornice doveva contenere quattro medaglioni nella parte superiore e cinque medaglioni per lato nelle due fasce verticali, per un totale perciò di quattordici medaglioni. La parte inferiore non conteneva medaglioni ma certamente nel rettangolo centrale, quasi a fare da pendant alla Madonna in trono della lunetta centrale, ci doveva essere la scena della nascita di Maria, con S. Anna e le levatrici, secondo un modello iconografico comune in Oriente in Occidente. 
Alcuni medaglioni non sono più leggibili. Qualcuno è ancora individuabile. Le figure che ci rimangono formano l’angolo alto a sinistra della cornice e parte del lato destro. Il primo medaglione, all’angolo sinistro, presenta, come tutti gli altri, una figura a mezzobusto e raffigura un frate con un saio che tiene un libro chiuso nella mano sinistra e appoggia la destra sul petto. Il volto glabro, la fronte con i capelli tagliati secondo la tonsura stretta, e la testa circonfusa da otto raggi a mo’ di aureola. In verità proprio questo tipo di raggiera ci avverte che non ci troviamo di fronte ad un santo ma ad un frate venerato come beato dal popolo ma non canonizzato dalla Chiesa: con ogni probabilità, se il nome che porta, sciogliendo l’abbreviazione, è davvero LUCAS con il titolo di DOCTOR, potrebbe essere il francescano Luca Belludi, compagno e primo biografo di sant’Antonio, considerato dotto e sapiente e perciò invocato ancora oggi a Padova dagli studenti prima degli esami.
Il medaglione riporta la scritta seguente, che lo circonda: VIRGO BENEDICTA SUPER OMNES FEMINAS ANGELOS VINCIS PURITATE (“O Vergine benedetta sopra ogni femmina, tu vinci gli angeli per purezza”). È l’inizio della seguente antifona mariana: 
«O virgo benedicta super omnes feminas, quae angelos vincis puritate, quae omnes sanctos superas pietate.
O mater Domini sicut in prima femina abundavit delictum ita et in te super abundavit omnis plenitudo gratiae».
Sotto questo, troviamo il medaglione con la scritta SANCTUS DOMINICUS, che nel tondo riporta la seguente iscrizione: SICUT PRIMUS ADAM FUIT EX TERRA VIRGINE ET NUNQUAM MALEDICTA FORMATUS, che riprende un’altra frase ripresa dalla tradizione patristica in lode di Maria: 
«sicut primus  Adam fuit ex terra Virgine et numquam maledicta formatus ita decuit in secundo Adam fieri».
Anche San Domenico è raffigurato con la tonsura e l’aureola, porta l’abito bianco e il mantello nero dell’ordine da lui fondato, nella mano destra appoggiata sul petto tiene un libro chiuso, nella sinistra impugna una croce astile. 
Sotto ancora troviamo un altro medaglione con la scritta SANCTUS VINCENTIUS. E’ raffigurato anche lui con aureola e tonsura e con l’abito domenicano: si tratta di San Vincenzo Ferrer, famoso predicatore e taumaturgo. Anche lui tiene nella destra la croce e nella sinistra un libro. Purtroppo non si legge più lo scritto del tondo che racchiude il suo medaglione. 
Più in basso si trova il medaglione con la scritta SANCTUS GUGLELMUS. È anche lui raffigurato con aureola e tonsura, con un saio che sembrerebbe francescano. Non sembra essere il nostro santo eremita Guglielmo Cuffitella perché di lui avremo una raffigurazione a parte. Tra l’altro questo porta un libro nella mano sinistra e nella mano destra tiene una sorta di bastone che appoggiato sulla spalla termina dividendosi in tre parti che certo aveva un significato che a noi oggi sfugge, ameno che non si tratti della stilizzazione di un giglio simbolo della purezza. Anche la scritta di questo tondo è ormai illeggibile.
In alto, accanto al medaglione di Luca c’è invece il medaglione con la scritta SANCTUS LUDOVICUS e con l’iscrizione del tondo parzialmente leggibile: VIRGO … PLENISSIMA CUIUS CONCEPTIO SINGULARIS. È la seconda parte della antifona vista precedentemente:
«O virgo iusta et omni iustitia plenissima cuius conceptio singularis».
Figlio di re Carlo II d'Angiò e di Maria d'Ungheria, rinunciò all'eredità del Regno di Napoli in favore del fratello minore, Roberto d'Angiò, entrando nell'Ordine Francescano.  Fu ordinato vescovo di Tolosa nel 1296 da papa Bonifacio VIII, per questo nel nostro medaglione ha la mitria vescovile sul capo e tiene nella sinistra il bastone pastorale. Alla destra di questo troviamo il medaglione con il busto di un cardinale: sicuramente è il francescano San Bonaventura da Bagnoregio, con la mozzetta di ermellino e il galero cardinalizio in testa e un libro nella mano destra, come generalmente viene raffigurato.
Dopo Bonaventura troviamo il busto di un frate domenicano con in mano un libro e sulla fronte una ferita: si tratta di Pietro da Verona morto martire durante la sua predicazione contro i manichei. Anche in questo, come in quello precedente non si riesce a leggere la scritta del tondo.
Infine troviamo il medaglione di Sant’Antonio di Padova, detto, specie in Sicilia, Sant’Antonino per distinguerlo da Sant’Antonio Abate (anche a Scicli il convento in suo onore extra moenia sarà detto “di Sant’Antonino”). Pure lui indossa il saio francescano e tiene un libro nella sinistra.  Purtroppo neanche qua si riesce  a leggere la scritta del tondo. 
Mancano dunque sei medaglioni, ma se ne possono intuire le immagini e il senso.  Come si vede infatti si tratta di un insieme di medaglioni di santi che riportano frasi tratte dalla liturgia e dalle opere dei Padri in lode della Immacolata Concezione di Maria: da un parallelo con altre opere pittoriche relative alla Vergine, che riportano quasi tutte le stesse frasi e gli stessi santi, possiamo pensare che nei medaglioni mancanti potrebbero esserci stati i ritratti di Sant’Ilario, San Bernardo, Sant’Anselmo, San Tommaso d’Aquino, Sant’Agostino, Sant’Ambrogio.

 

Purtroppo ci mancano del tutto le immagini della parete alla destra di chi guarda: sia del riquadro della lunetta che della vicina scena laterale, così come il pannello rettangolare laterale.
Come pure manca il pannello centrale sotto la finestra.
Dalle tracce di affreschi rimaste sulla parete sembra che si possa ipotizzare un affresco generale, un polittico, con parti simmetriche. Quindi a destra dovremmo avere un dipinto circondato da medaglioni come sulla sinistra. Di questo ci rimane qualcosa della scena centrale, simmetrica all’incontro di Gioacchino e Anna, che ricorda il panneggio di una ampia veste di qualche personaggio all’impiedi che, certamente riporterà sempre qualche episodio della vita della Vergine. E forse non andremmo lontano dal vero nell’ipotizzare qui la raffigurazione della  presentazione di Maria Bambina al Tempio.
Del resto, nessuna traccia: quelle rimaste ci fanno ipotizzare la stessa impostazione per la lunetta superiore, con una immagine mariana e accanto una scena dalle storie di Gioacchino ed Anna. 


Ignazio La China

© 1920-2024 – Tutti i diritti riservati. L'intero contenuto del sito è coperto da copyright.
È vietata la riproduzione, anche parziale, di immagini, testi o contenuti senza autorizzazione (vedi normativa vigente).
Maggiori informazioni? Mettiti in contatto
made by bonu-q