L'8 settembre '43 a Rodi e in Grecia
Appendice
Alla data dell'infausto 8 settembre, Rodi era presidiata da 34.000 militari italiani, dislocati sopratutto nelle zone costiere, dove più probabile poteva essere un tentativo di sbarco da parte degli Alleati. Questo forte distaccamento era armato malissimo: i fucili modello '91 e i cannoni 75/27 erano ancora quelli residuati dalla prima guerra mondiale. Ciò nonostante, i nostri artiglieri erano in grado di centrare in pieno, e al primo colpo, un barile posto a cinque chilometri di distanza o una sagoma navale alla stessa distanza sul mare. La guarnigione difettava di carri armati; gli automezzi erano coevi ai fucili ed ai cannoni, ad eccezione di una ventina di 626 Fiat che l'industria italiana aveva costruito per l'esportazione in Francia (tutte le indicazioni sul cruscotto erano in lingua francese) e rimasti in Italia, allo scoppio della guerra. La flotta aerea, efficientissima nella sorveglianza sul mare e nei bombardamenti su Alessandria, era numericamente modesta.
Con la caduta di Mussolini, nel luglio del 1943, Hitler aveva disposto il rafforzamento delle basi tedesche in tutte le zone presidiate dalle truppe italiane, con l'invio di altri uomini (specializzati) e altri mezzi bellici (modernissimi). Il generale Kleeman, alla data dell'8 settembre, disponeva di una intera divisione corazzata, la “Rhodos”, forte di 6.500 uomini addestrati e dotati di armi micidiali portatili, di 25 carri armati pesanti, della classe Tiger, di una efficientissima artiglieria e di una squadriglia dei leggendari Stukas.
Come quartiere generale, la divisione tedesca scelse strategicamente il centro dell’isola, equidistante dalle postazioni militari italiane e dai centri nevralgici della difesa costiera.
Un radiogramma del generale Ambrosio, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, trasmesso la sera dell’8 settembre, lasciò il governatore Campioni arbitro della situazione, con direttive equivoche, che si prestavano ad opposte decisioni, nel senso che “non dovevano essere prese iniziative di atti ostili contro i tedeschi”, ma di "procedere al disarmo delle unità tedesche”, ove fossero "prevedibili atti di forza da parte germanica”. Nessun accenno ad una presa di posizione a fianco degli alleati, che sarebbe valso ad un ordine di capovolgimento di fronte, odioso e spregevole fin che si vuole, ma chiaro e preciso nell'interpretazione e nell'esecuzione. Meglio informato, e più dettagliatamente, il generale Kleeman aveva già pronto un piano d’emergenza. Nella notte tra l'8 e il 9 settembre, si presentò al Castello, dove aveva sede il Governatorato, e con tutto il suo Stato Maggiore in pieno assetto di guerra, si fece ricevere dall'ammiraglio Campioni (comandante militare del Dodecaneso e governatore di Rodi). L’occasione, agli occhi di un capo meno ingenuo del governatore italiano, sarebbe stata propizia per una cattura in massa del gruppo dirigente tedesco, sotto il segno di una ospitalità imposta; non c'è dubbio che ostaggi del genere avrebbero costituito una preziosa merce di scambio, in caso di imprevedibili sviluppi. Il generale Kleeman, in effetti, aveva azzardato un passo che poteva rivelarsi pericoloso; ma, buon conoscitore di uomini e fiducioso nell’innata tradizione cavalleresca italiana, di cui Campioni era un illustre rappresentante, non aveva esitato a dare il via ad una azione diplomatica, da cui dipendevano le sorti della sua Divisione. Perché non c'era da farsi illusioni; anche se male armati, gli italiani erano quasi sei volte superiori in numero e conoscevano l'isola palmo a palmo, tanto da poter fare, delle postazioni tedesche, oggetto di precisi bersagli d'artiglieria. Il tedesco chiese poco, per essere certo di ottenerlo; si limitò a far presente la necessità di manovra, per le sue truppe, in caso di attacco da parte degli inglesi. L'ammiraglio Campioni, in assenza di un sia pur vago piano strategico, non ritenne sospetta la richiesta; e l’accordò, a condizione che non venissero occupati il porto di Rodi e i due aeroporti, e di essere preavvertito dei movimenti tedeschi nel territorio dell’isola. Il generale Kleeman aveva raggiunto il suo scopo: guadagnare tempo e accertarsi della passività militare italiana, dell’imbarazzo del suo Stato Maggiore e dell'inesistenza di un attacco italiano a sorpresa. Nella stessa mattinata del 9 settembre, Kleeman attuò il piano previsto da tempo. Assalì di sorpresa i due aeroporti di Calato e di Màrizza, impadronendosene quasi senza colpo ferire; avieri e soldati di guardia li avevano fatti avvicinare senza nutrire sospetti, e avevano reagito solo quando si erano visti minacciare con le armi, quando cioè era troppo tardi. Autotrasportati, reparti tedeschi assalirono a tradimento i più pericolosi distaccamenti italiani, con un nutrito fuoco di artiglieria, seguito dall'intervento massiccio dei carri armati. Non è escluso che parecchi comandanti di compagnia o di batteria abbiano pensato ad un attacco da parte degli inglesi, talmente insospettata e fulminea fu l'azione dei tedeschi; da Rodi non erano pervenute neppure le oscure disposizioni di Ambrosio. Era mezzogiorno, quando Inigo Campioni, messo al corrente dell'attacco a tradimento, diede ordine di reagire. La situazione si rovesciò di colpo, a danno dei tedeschi, per iniziativa dei singoli comandanti italiani di reparto. Diverse postazioni di artiglieria tedesca saltarono in aria, centrate dai nostri arcaici 75/27; la stessa fine fecero una dozzina di carri armati. Quasi duemila uomini della divisione corazzata tedesca furono fatti prigionieri. Solo che ci fosse stato un indirizzo unico, da parte del nostro Stato Maggiore, dei tedeschi si sarebbe fatta piazza pulita, in un paio di giorni al massimo. Ma gli ufficiali superiori e il generale della nostra Divisione “Regina”, con una inettitudine delittuosa, con una demenziale incoscienza, invece di accorrere là dove indispensabile sarebbe stato il loro apporto direttivo unico, invece di coordinare un piano organico di contrattacco generale, se ne stavano tranquillamente a Rodi, in attesa di non so che cosa, della manna del cielo, forse, di un intervento esterno. Era come se quell'inferno che si era scatenato improvviso sull'isola non li riguardasse. La sera del 9 si sparse la voce che una missione inglese, paracadutata nei pressi del Villaggio Cretese, era stata ricevuta dal Governatore, al quale era stato promesso un intervento delle forze alleate. La notizia, sin d’allora, sembrò dubbia e con scetticismo fu accolta da quanti furono in grado di apprenderla. Il 10 e l'11 settembre la situazione si fece critica, per i tedeschi; cominciavano a difettare loro le munizioni e la benzina, mentre gli italiani guadagnavano terreno. Kleeman tentò l'ultima carta; con degli emissari, greci suppongo, notificò un ultimatum all'ammiraglio Campioni: o la resa incondizionata delle forze armate italiane, o la distruzione della città di Rodi con gli Stukas che, sul piano tattico, non avevano ancora trovato impiego, sia per la instabilità degli obiettivi, sia per la pericolosa reazione della nostra contraerea. Notizie trapelate attraverso gli attendenti ed il personale di servizio al Governatorato, parlarono di un consiglio di guerra, tenuto dall'ammiraglio Campioni con alcuni collaboratori non qualificati e in assenza dello Stato Maggiore, fatto prigioniero dai tedeschi sul campo di... un ristorante cittadino. Fu deciso - si disse - di chiedere la resa, per evitare la distruzione della città. Sia come sia, a mezzo corrieri o tramite gli antidiluviani telefoni da campo, ogni reparto combattente ebbe l'ordine di arrendersi, sotto lo specioso e falso motivo che "tutta l'isola era in mano dei tedeschi”. La criminale bugia ottenne lo scopo di deprimere gli animi, perchè ogni reparto ritenne di essere il solo ad opporre resistenza. E, così, ogni reparto depose le armi, ignaro della realtà vera. Paradossale fu la liberazione dei prigionieri tedeschi, a cui furono riconsegnate le armi, perchè, a loro volta, facessero prigionieri gli italiani che li avevano catturati.
Avute le mani libere a Rodi, i tedeschi si occuparono delle maggiori isole italiane del Dodecaneso. Scarpanto, su preciso ordine dell'ammiraglio Campioni, si arrese senza combattere. Coo, adeguandosi alle disposizioni di Ambrosio, oppose una resistenza accanita sino al 5 ottobre, data in cui, per la preponderante forza nemica, fu costretta a cedere. L'ammiraglio Mascherpa, con il modesto aiuto di un reparto inglese, sbarcato a Lero dopo l’armistizio, tentò di contrastare e respingere i numerosi tentativi di sbarco operati dai tedeschi, nel corso di quasi due mesi. La guarnigione, massacrata da cinquanta bombardamenti degli Stukas di stanza a Rodi, priva di viveri e di munizioni, cedette le armi il 16 novembre. Negli scontri tra il 9 e il 12 settembre, nella sola Rodi trovarono la morte 150 militari italiani; più di 300 furono i feriti. Ma molte di più furono le vittime, in conseguenza della pusillanime resa di un uomo. Un centinaio di soldati e ufficiali italiani, colpevoli di avere opposto resistenza e provocato perdite ai tedeschi, furono fucilati; e ben seimila, tra soldati ed ufficiali, ammassati come merce senza valore nelle stive di due navi mercantili, perirono in mare per un naufragio e un siluramento, durante il viaggio da Rodi ad Atene. Molti altri terminarono i loro giorni nei campi di concentramento, uccisi da una sentinella assassina o dalla tubercolosi o dal tifo petecchiale o dalla fame e dal freddo. Inigo Campioni, il 19 settembre fu portato ad Atene e, successivamente, internato nel campo di concentramento di Schokken,in Polonia. Luigi Mascherpa, catturato il 16 novembre, seguì lo stesso destino di Campioni. A fine gennaio 1944, i due ammiragli furono trasferiti nelle carceri fasciste di Verona e fucilati, all'alba del 24 maggio 1944, dopo una farsa di processo. Se il generale Ambrosio avesse dato disposizioni precise e non equivoche; se il governatore di Rodi fosse stato l'ammiraglio Mascherpa; se gli inglesi fossero sbarcati a Rodi, piuttosto che a Lero; se l'ammiraglio Campioni fosse stato più deciso e meno ingenuo, più pragmatico e meno gentiluomo; se il generale Scaroina avesse avuto un solo pelo della barba di Kleeman ... Se, se,se ... Rimane il solo rimpianto di quanto poteva essere e non è stato; e tutti i “se” non cambiano la storia. Gli alleati si ricordarono dell'Egeo dopo il vittorioso sbarco in Normandia, cioè a tragedia compiuta, nell'ottobre del 1944. Il 7 marzo del 1948, per decisione unanime delle potenze vincitrici, Rodi e tutte le isole del Dodecaneso furono incorporate alla Grecia.
I 15.000 civili italiani, residenti a Rodi, furono posti dinanzi ad una dura alternativa: abbandonare l'isola o assumere la cittadinanza greca. La numerosa colonia italiana non ebbe dubbi o esitazioni: preferì rientrare in Italia , malgrado un incerto futuro economico, affollando diversi campi di raccolta, tra cui quello, più affollato, di Aversa. A Rodi rimasero soltanto nove italiani: due monaci, tre suore e quattro anziani pensionati.
Un radiogramma del generale Ambrosio, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, trasmesso la sera dell’8 settembre, lasciò il governatore Campioni arbitro della situazione, con direttive equivoche, che si prestavano ad opposte decisioni, nel senso che “non dovevano essere prese iniziative di atti ostili contro i tedeschi”, ma di "procedere al disarmo delle unità tedesche”, ove fossero "prevedibili atti di forza da parte germanica”. Nessun accenno ad una presa di posizione a fianco degli alleati, che sarebbe valso ad un ordine di capovolgimento di fronte, odioso e spregevole fin che si vuole, ma chiaro e preciso nell'interpretazione e nell'esecuzione. Meglio informato, e più dettagliatamente, il generale Kleeman aveva già pronto un piano d’emergenza. Nella notte tra l'8 e il 9 settembre, si presentò al Castello, dove aveva sede il Governatorato, e con tutto il suo Stato Maggiore in pieno assetto di guerra, si fece ricevere dall'ammiraglio Campioni (comandante militare del Dodecaneso e governatore di Rodi). L’occasione, agli occhi di un capo meno ingenuo del governatore italiano, sarebbe stata propizia per una cattura in massa del gruppo dirigente tedesco, sotto il segno di una ospitalità imposta; non c'è dubbio che ostaggi del genere avrebbero costituito una preziosa merce di scambio, in caso di imprevedibili sviluppi. Il generale Kleeman, in effetti, aveva azzardato un passo che poteva rivelarsi pericoloso; ma, buon conoscitore di uomini e fiducioso nell’innata tradizione cavalleresca italiana, di cui Campioni era un illustre rappresentante, non aveva esitato a dare il via ad una azione diplomatica, da cui dipendevano le sorti della sua Divisione. Perché non c'era da farsi illusioni; anche se male armati, gli italiani erano quasi sei volte superiori in numero e conoscevano l'isola palmo a palmo, tanto da poter fare, delle postazioni tedesche, oggetto di precisi bersagli d'artiglieria. Il tedesco chiese poco, per essere certo di ottenerlo; si limitò a far presente la necessità di manovra, per le sue truppe, in caso di attacco da parte degli inglesi. L'ammiraglio Campioni, in assenza di un sia pur vago piano strategico, non ritenne sospetta la richiesta; e l’accordò, a condizione che non venissero occupati il porto di Rodi e i due aeroporti, e di essere preavvertito dei movimenti tedeschi nel territorio dell’isola. Il generale Kleeman aveva raggiunto il suo scopo: guadagnare tempo e accertarsi della passività militare italiana, dell’imbarazzo del suo Stato Maggiore e dell'inesistenza di un attacco italiano a sorpresa. Nella stessa mattinata del 9 settembre, Kleeman attuò il piano previsto da tempo. Assalì di sorpresa i due aeroporti di Calato e di Màrizza, impadronendosene quasi senza colpo ferire; avieri e soldati di guardia li avevano fatti avvicinare senza nutrire sospetti, e avevano reagito solo quando si erano visti minacciare con le armi, quando cioè era troppo tardi. Autotrasportati, reparti tedeschi assalirono a tradimento i più pericolosi distaccamenti italiani, con un nutrito fuoco di artiglieria, seguito dall'intervento massiccio dei carri armati. Non è escluso che parecchi comandanti di compagnia o di batteria abbiano pensato ad un attacco da parte degli inglesi, talmente insospettata e fulminea fu l'azione dei tedeschi; da Rodi non erano pervenute neppure le oscure disposizioni di Ambrosio. Era mezzogiorno, quando Inigo Campioni, messo al corrente dell'attacco a tradimento, diede ordine di reagire. La situazione si rovesciò di colpo, a danno dei tedeschi, per iniziativa dei singoli comandanti italiani di reparto. Diverse postazioni di artiglieria tedesca saltarono in aria, centrate dai nostri arcaici 75/27; la stessa fine fecero una dozzina di carri armati. Quasi duemila uomini della divisione corazzata tedesca furono fatti prigionieri. Solo che ci fosse stato un indirizzo unico, da parte del nostro Stato Maggiore, dei tedeschi si sarebbe fatta piazza pulita, in un paio di giorni al massimo. Ma gli ufficiali superiori e il generale della nostra Divisione “Regina”, con una inettitudine delittuosa, con una demenziale incoscienza, invece di accorrere là dove indispensabile sarebbe stato il loro apporto direttivo unico, invece di coordinare un piano organico di contrattacco generale, se ne stavano tranquillamente a Rodi, in attesa di non so che cosa, della manna del cielo, forse, di un intervento esterno. Era come se quell'inferno che si era scatenato improvviso sull'isola non li riguardasse. La sera del 9 si sparse la voce che una missione inglese, paracadutata nei pressi del Villaggio Cretese, era stata ricevuta dal Governatore, al quale era stato promesso un intervento delle forze alleate. La notizia, sin d’allora, sembrò dubbia e con scetticismo fu accolta da quanti furono in grado di apprenderla. Il 10 e l'11 settembre la situazione si fece critica, per i tedeschi; cominciavano a difettare loro le munizioni e la benzina, mentre gli italiani guadagnavano terreno. Kleeman tentò l'ultima carta; con degli emissari, greci suppongo, notificò un ultimatum all'ammiraglio Campioni: o la resa incondizionata delle forze armate italiane, o la distruzione della città di Rodi con gli Stukas che, sul piano tattico, non avevano ancora trovato impiego, sia per la instabilità degli obiettivi, sia per la pericolosa reazione della nostra contraerea. Notizie trapelate attraverso gli attendenti ed il personale di servizio al Governatorato, parlarono di un consiglio di guerra, tenuto dall'ammiraglio Campioni con alcuni collaboratori non qualificati e in assenza dello Stato Maggiore, fatto prigioniero dai tedeschi sul campo di... un ristorante cittadino. Fu deciso - si disse - di chiedere la resa, per evitare la distruzione della città. Sia come sia, a mezzo corrieri o tramite gli antidiluviani telefoni da campo, ogni reparto combattente ebbe l'ordine di arrendersi, sotto lo specioso e falso motivo che "tutta l'isola era in mano dei tedeschi”. La criminale bugia ottenne lo scopo di deprimere gli animi, perchè ogni reparto ritenne di essere il solo ad opporre resistenza. E, così, ogni reparto depose le armi, ignaro della realtà vera. Paradossale fu la liberazione dei prigionieri tedeschi, a cui furono riconsegnate le armi, perchè, a loro volta, facessero prigionieri gli italiani che li avevano catturati.
Avute le mani libere a Rodi, i tedeschi si occuparono delle maggiori isole italiane del Dodecaneso. Scarpanto, su preciso ordine dell'ammiraglio Campioni, si arrese senza combattere. Coo, adeguandosi alle disposizioni di Ambrosio, oppose una resistenza accanita sino al 5 ottobre, data in cui, per la preponderante forza nemica, fu costretta a cedere. L'ammiraglio Mascherpa, con il modesto aiuto di un reparto inglese, sbarcato a Lero dopo l’armistizio, tentò di contrastare e respingere i numerosi tentativi di sbarco operati dai tedeschi, nel corso di quasi due mesi. La guarnigione, massacrata da cinquanta bombardamenti degli Stukas di stanza a Rodi, priva di viveri e di munizioni, cedette le armi il 16 novembre. Negli scontri tra il 9 e il 12 settembre, nella sola Rodi trovarono la morte 150 militari italiani; più di 300 furono i feriti. Ma molte di più furono le vittime, in conseguenza della pusillanime resa di un uomo. Un centinaio di soldati e ufficiali italiani, colpevoli di avere opposto resistenza e provocato perdite ai tedeschi, furono fucilati; e ben seimila, tra soldati ed ufficiali, ammassati come merce senza valore nelle stive di due navi mercantili, perirono in mare per un naufragio e un siluramento, durante il viaggio da Rodi ad Atene. Molti altri terminarono i loro giorni nei campi di concentramento, uccisi da una sentinella assassina o dalla tubercolosi o dal tifo petecchiale o dalla fame e dal freddo. Inigo Campioni, il 19 settembre fu portato ad Atene e, successivamente, internato nel campo di concentramento di Schokken,in Polonia. Luigi Mascherpa, catturato il 16 novembre, seguì lo stesso destino di Campioni. A fine gennaio 1944, i due ammiragli furono trasferiti nelle carceri fasciste di Verona e fucilati, all'alba del 24 maggio 1944, dopo una farsa di processo. Se il generale Ambrosio avesse dato disposizioni precise e non equivoche; se il governatore di Rodi fosse stato l'ammiraglio Mascherpa; se gli inglesi fossero sbarcati a Rodi, piuttosto che a Lero; se l'ammiraglio Campioni fosse stato più deciso e meno ingenuo, più pragmatico e meno gentiluomo; se il generale Scaroina avesse avuto un solo pelo della barba di Kleeman ... Se, se,se ... Rimane il solo rimpianto di quanto poteva essere e non è stato; e tutti i “se” non cambiano la storia. Gli alleati si ricordarono dell'Egeo dopo il vittorioso sbarco in Normandia, cioè a tragedia compiuta, nell'ottobre del 1944. Il 7 marzo del 1948, per decisione unanime delle potenze vincitrici, Rodi e tutte le isole del Dodecaneso furono incorporate alla Grecia.
I 15.000 civili italiani, residenti a Rodi, furono posti dinanzi ad una dura alternativa: abbandonare l'isola o assumere la cittadinanza greca. La numerosa colonia italiana non ebbe dubbi o esitazioni: preferì rientrare in Italia , malgrado un incerto futuro economico, affollando diversi campi di raccolta, tra cui quello, più affollato, di Aversa. A Rodi rimasero soltanto nove italiani: due monaci, tre suore e quattro anziani pensionati.