L'esperienza della fede
Modica, 1989 (postfazione)
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Un paio di mesi fa, nel corso di una accademica discussione sulla Madonnina delle Lacrime, uno dei miei generi mi chiese quali fossero i veri sentimenti che ispirarono il mio articolo, vibrante di fede, che stesi su richiesta di monsignor Blanco. Qualcosa dissi, allora, ma non l'essenziale, perché distratti da altri argomenti di attualità.

Ho detto, in altra occasione, che il dolore, la disperazione, il pianto dei protagonisti della mia Grande Alluvione potevano essere resi a patto di rivivere la loro stessa tragedia, di immedesimarsi in loro, soffrendo la loro stessa passione. Se mi è stato possibile scavare nella psiche di uomini a me estranei e lontani nel tempo, enormemente più facile si dimostrò un modesto ricorso alla memoria, per ricordare emozioni e pensieri di un altro me stesso. Trattando della Madonnina, nel 1953, ho eliminato dalla mia vita, per un momento, l'esperienza degli ultimi venti anni, per tornare a vivere l'innocenza della mia prima giovinezza; e, mettendo a tacere il subentrato scetticismo agnostico, usare parole e descrivere sentimenti con la fresca sincerità dell'antica fede.
Oggi, purtroppo, non è più tempo di trasposizioni o di ingannevoli artifici letterari. La tragedia che vivo, che viviamo, è troppo vera perché se ne possa fare oggetto di pietose menzogne. Guardo quella povera cosa in cui si è ridotta mia moglie e il sangue mi monta alla testa, la rabbia mi esplode nel petto; e urlo, in silenzio, parole blasfeme contro una entità in cui non credo. E, ciò malgrado, vorrei potere scrivere sulle pareti della mia casa o dovunque gli occhi potessero leggerlo, a lettere di fuoco: "Dio è ingiusto!". Dio, chiunque sia: Cristo, Confucio, Allah. Perché, non facciamoci illusioni, una condanna del genere è peggiore della morte, l'agonia di ogni giorno, nell'inutile speranza di veder brillare nei suoi occhi la luce del pensiero e della memoria, nell'assurda attesa di una sia pur minima autosufficienza.

Raccontando la drammatica odissea di un suo amico pagano, con la moglie in fin di vita, dopo inaudite sofferenze, Simmaco chiese a sant'Agostino una risposta non dogmatica sull'intervento del suo dio nelle cose umane. Sant'Agostino eluse la domanda e domandò, a sua volta, cosa ne pensasse, invece, l'amico pagano dei suoi dèi. E Simmaco risposte: "Solo che potesse avere il dono di una fede, bastante a credere in un Dio, avrebbe la gioia crudele di poterlo offendere".
A ritenersi paghi di quello che ci resta, mi fa venire in mente l'assurda deposizione di ex voto, nel tempio di una qualsiasi divinità, per essere scampati ad un pericolo peggiore di quello subìto. Eppure...

Da ragazzo, quasi bambino, frequentavo giornalmente la chiesa del Santissimo Salvatore – mia nonna mi aveva segretamente destinato alla carriera sacerdotale –, che mi incantava con i solenni canti gregoriani dei fedeli, guidati dalla voce baritonale dell'allora parroco Blanco, con le cento luci sfavillanti della "ninfa", l'enorme lampadario di cristallo, al centro della navata a croce, con il suono vibrato dell'organo, con l'odore violento dell'incenso bruciato. Poi, portate a termine le funzioni, la gente usciva, le luci venivano spente, l'aria si riempiva dell'acre sentore di ceri smorzati e la chiesa piombava nel buio e nel silenzio.
Rimaneva acceso soltanto un lumicino ad olio, sulla destra dell'altare, ai piedi di un Cristo Risorto, che spandeva un alone tremolante, che l'oscurità rendeva percettibile. Ecco, senza quel lumino, quando era ora di tornare a casa, la chiesa buia mi avrebbe fatto paura; quella piccola fiammella, che pare si spegnesse in guizzi ora vividi, ora smorti, mi dava il conforto di una presenza amica, che alienava dal mio cuore ogni presagio di terrore, e mi guidava verso l'uscita, come preso per mano...


Modica, 20 gennaio 1989
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