Monte Tabuto dista da Modica quattro o cinque ore di marcia a piedi; non rappresentava, quindi, una distanza proibitiva per gli uomini che in epoca preistorica abitavano le grotte delle colline che, come un anfiteatro naturale, circondavano la confluenza dei due torrenti di Modica e che avevano bisogno, per i loro strumenti di lavoro e per le armi, della selce che da quelle miniere si estraeva. È probabile, anzi, che sia stata proprio una colonia di modicani a sfruttare per prima i modesti giacimenti del prezioso minerale, accampandosi in uno dei due profondi valloni che isolano Monte Tabuto in una posizione inespugnabile e che, ancora oggi, è noto come la “Cava dei Modicani”.
Quando, nel 1884, i lavori di sbancamento di una strada consortile misero allo scoperto le antiche entrate delle miniere, il dottor Filippo Pennavaria, a cui fu consegnato lo scarso materiale raccolto in una superficiale ricognizione, ritenne di avere trovato delle grotte sepolcrali presicule 1.
Quattro anni più tardi, Paolo Orsi, l’infaticabile, comunicò al mondo di avere scoperto, per la prima volta in Italia, una miniera di selce vecchia di circa 36 secoli, dandone una minuziosa ed esauriente descrizione 2.
Le miniere, i sepolcri e l’abbondante materiale in essi contenuto illustrano, con meravigliosa eloquenza, una delle pagine più oscure della vita preistorica. Gli stretti budelli che si inoltrano nel vivo del monte, sino a 50 metri dall’imboccatura, alti appena da permettere ad un uomo di avanzare strisciando sul ventre, puntellati da colonne di calcare, lasciate apposta per evitare il pericolo di frane mortali, costituiscono la testimonianza tragica di quanto sudore e quanto sangue siano costati gli scarsi filoni della materia, prima ed insostituibile, per ricavare coltelli, punte di lancia e di freccia, raschiatoi, asce e punteruoli.
Le grotte-miniere di Monte Tabuto sono otto in tutto; le più piccole, abbandonate per carenza di materiale, furono sfruttate come sepolcri per le numerose vittime che la montagna mieteva ogni anno, con i cedimenti improvvisi o con le malattie polmonari che provocava l’inumano lavoro. La più grande fu abbandonata, quasi certamente con molta fretta e non da tutti, a causa delle violenti scosse di un terremoto improvviso; i segni della vita e della morte, infatti, vi sembrano cristallizzati, fermati in un attimo preciso di terrore. Strumenti di lavoro e suppellettili non ebbero posto nella fuga precipitosa verso l’estrema salvezza; né mai più l’uomo ebbe cuore di tornare a riprenderli, oltre la frana.
Fig. 14 - Da P. Orsi: Miniere di selce di Monte Tabuto. Disegno di R. Carta.A - Frana B - Camera dei vasi C - Camera dei morti.
La miniera, così come si presenta adesso, offre lo stesso aspetto del 1896. Dall’ingresso, si entra in una specie di vestibolo, limitato sulla sinistra da un’ampia frana, che immette, attraverso un breve corridoio, nelle cosiddetta camera dei vasi; la volta è ancora puntellata da tre pilastri di rozza forma quadrata. Il tracciato della grotta, o meglio, del cunicolo, si muove, nelle sue grandi linee, da est verso ovest.
Dalla camera dei vasi si dipartono due angusti corridoi; uno di essi è, quasi certamente, l’ultimo scavo di ricerca dei filoni di selce, prima dell’abbandono definitivo della miniera. Ci porta a questa conclusione il fatto che i vasi, i grandi recipienti destinati a contenere l’acqua necessaria a dissetare le talpe umane, dovevano necessariamente trovarsi a portata di mano, in un ambiente che non permetteva alcuna libertà di movimento, se non carponi. Lo stesso Orsi dovette limitarsi a raccogliere il materiale archeologico affiorante, impossibilitato com’era ad effettuare degli scavi regolari nell’intera area della miniera, dato che l’altezza media dei condotti e delle ‘camere’, liberati dal materiale di riporto e delle frane, si aggirava sui 60 centimetri e, raramente, raggiungeva gli 80 centimetri.
Il senso di claustrofobia che abbiamo provato ripercorrendo, dopo quasi quattro millenni, l’itinerario sotterraneo dei cercatori di selce, è stato qualcosa di veramente soffocante e spaventoso, pur nella certezza che a pochi passi c’era il nastro asfaltato dalla civiltà. L’aria non circola: è immobile e caldo-umida; pavimento e soffitto, alla luce delle lampade tascabili, sembrano tendere a schiacciarti in una morsa di roccia. Le poche fotografie, scattate in condizioni impossibili, alla luce fredda ed accecante del flash, sono gessose e prive di rilievo, assolutamente inadeguate a fornire una sia pur minima idea della realtà opprimente dell’ambiente.
Il secondo cunicolo, dalla camera dei vasi porta al locale più vasto della miniera: circa 80 metri quadrati, per un’altezza di 65 centimetri. Anche qui, per ragioni di sicurezza, la volta è sostenuta da due pilastri di calcare; altri due sostengono la volta del vano successivo, di dimensioni più modeste.
Per chi vuole andare sino in fondo, c’è un ultimo ambiente, una specie di “otto”, che l’Orsi indicò come la camera dei morti, per avervi trovato numerosi resti umani insepolti. Potrebbero — scrive l’archeologo — «essere stati deposti colà, dopo l’abbandono della cava, dato che tutti erano adagiati sopra il letto di brecciame»; ma non è escluso che possa trattarsi delle vittime della miniera sconvolta dal sisma, rifugiatesi nell’ultimo vano, in cerca di quell’aria che via via veniva a mancare, per assenza di afflusso dall’esterno, condannate inesorabilmente ad una morte lenta, per asfissia, prima ancora che per fame.
La presenza di uno scheletro isolato, nel vestibolo, la cui apertura era ostruita da una frana, sostiene questa ipotesi, tutt’altro che assurda, se si tiene conto della stranezza e della singolarità che il ritrovamento rivestirebbe, ove lo si considerasse il duplice aspetto di inumazione individuale e collettiva. Noi siamo convinti che l’Orsi, in quel lontano giorno di aprile, abbia alzato il sipario sull’ultima scena di un dramma di miniera, tra i primi di una lunghissima serie che, per i quattro millenni successivi e sino ai giorni nostri, ha funestato lo sfruttamento dei tesori nascosti della terra.
La mezza dozzina di scheletri trovati nella camera dei morti, appartengono ad altrettanti minatori che, affidandosi ad un ingannevole istinto animale, si rifugiarono nell’antro più interno, su cui poggiava il massimo spessore della montagna, come a trovarvi maggiore protezione contro le convulsioni del sisma. Uno di essi, però, ebbe intuizione dell’errore e non si rassegnò a finire come una bestia in trappola; preferì avvicinarsi all’ingresso ostruito della miniera, portandosi appresso alcuni strumenti di scavo ed un recipiente colmo d’acqua. Contava forse di praticare un’apertura nella frana o sperava in un intervento dei compagni della tribù, dall’esterno. Come che sia, la speranza si dimostrò vana e anche le forze, mano a mano che il tempo scorreva, nel bagliore rossastro del ramo acceso, gli vennero meno; seduto a terra, con le spalle appoggiate alla parete della grotta, mentre i polmoni e la fumosa fiaccola bruciavano l’ossigeno prezioso, continuò ad aspettare, immobile. E così lo trovarono quando, tre millenni e mezzo dopo, la frana che ostruiva l’ingresso venne rimossa: con i punteruoli ed il coltello di selce accanto, il bicchiere a clessidra a portata di mano e con un inutile talismano che gli pendeva ancora sul petto.
La selce è stata, per almeno mezzo milione d’anni, un materiale di importanza capitale nella vita del genere umano. La scoperta della miniera di Monte Tabuto era la prima che avveniva in Italia e rivestiva, perciò, una enorme importanza, ai fini della conoscenza di un’industria tra le più vitali dell’uomo preistorico. L’ampia messe di materiali e di osservazioni permise di ricostruire, con sufficiente chiarezza, le condizioni di vita e di lavoro di un villaggio minerario, le usanze funebri, le relazioni commerciali con le stazioni vicine ed il grado di perfezione raggiunto nella lavorazione della ceramica.
Monte Tabuto, così come i vicini Monterace e Monteracello, per la sua particolare formazione geologica, manca di profonde caverne naturali; tutte le grotte aperte in esso, siano esse miniere o sepolcri, sono dovute all’opera paziente e faticosa dell’uomo del primo periodo siculo, che potè avvalersi soltanto, in assenza di strumenti metallici, di pali di legno duro, la cui punta acuminata veniva ulteriormente indurita dal fuoco, e di grandi asce basaltiche, oltre che di piccoli strumenti di selce.
Le miniere di Monte Tabuto — contrariamente alle coeve o più antiche del continente europeo, che sono scavate in pozzi verticali più o meno larghi3 — hanno un andamento orizzontale che spiega la mediocre qualità della selce, estratta necessariamente dalle falde superiori del giacimento.
I sepolcri, per la maggior parte, sono ricavati nei banchi di calcare più alti e compatti, per poterne ottenere la caratteristica forma a forno. Ad uso funebre furono destinate, altresì, quelle grotte aperte per uso minerario e che si erano rivelate prive del prezioso minerale.
L’assenza di lucerne o di altro oggetto fittile che potesse contenere grasso e stoppino, lascia supporre che il durissimo lavoro di escavazione e di estrazione avveniva alla luce fumosa di fiaccole d’erbe o di rami resinosi che, ovviamente non hanno lasciato testimonianza alcuna4.
Monte Tabuto ha dato soprattutto una massa straordinariamente grande e varia di avanzi ceramici: anfore, catini, bicchieri, ciotole, scodelle, bacili e imponenti idrie, recipienti destinati a contenere grandi riserve d’acqua, alte sino a 60 centimetri (non potevano esserlo di più, a causa del bassissimo soffitto roccioso), dipinte in rosso vivo e riccamente decorate con motivi geometrici neri.
II materiale siliceo, invece, è scarso e privo quasi di valore, se non per le deduzioni che se ne possono trarre. Coltelli di selce, raschiatoi, asce basaltiche e poche schegge informi; non vi è dubbio che si tratti di strumenti di lavoro, incredibilmente smussati e logori per lungo uso. Di materiale finito, nessuna traccia, almeno sinora. Segno, comunque, che il lavoro di sgrossatura dei grandi blocchi di selce e quello della trasformazione in armi e strumenti, avveniva lontano dalla miniera. Ad eccezione del fondo di una capanna, anzi metà di essa, non si è trovata altra testimonianza del villaggio che, pure, doveva sorgere nelle immediate vicinanze e presso cui il lavoro di rifinitura doveva essere completato, prima che i manufatti venissero esportati nelle zone limitrofe.
Perché, fuori di dubbio, i minatori di Monte Tabuto ricavavano i mezzi di sussistenza dal collocamento della selce, finita o grezza, presso i numerosi villaggi che costellavano le pendici meridionali di Monte Lauro. In un raggio di circa trenta chilometri sono affiorate sinora le tracce di una ventina di abitati della prima Età del bronzo, un periodo compreso grosso modo tra il 1800 ed il 1400 a.C.
Negli immediati dintorni di Monte Tabuto, ad un tiro di fionda dalle miniere, sorgevano i piccoli centri di Monte Race, della Cava dei Modicani, di Monte Sallia, di Cozzo delle Ciavole e di Monte Racello; qualche chilometro più all’interno, venivano gli abitati di Castiglione5, Maistro, Branco Grande, Piano Resti, Sante Croci e Poggio Bidini6 i villaggi più lontani erano, infine, quelli di Monte Casale, Castelluccio, Cava della Signora, Cava Lazzaro, Cava Ispica e Calafarina7
Fig. 15 - Villaggio, necropoli e miniere di selce di Monte Sallia, Cozzo Ciavole, Monte Racello e Monte Tabuto. Da B. Pace: Arte e Civiltà.
Non è improbabile che, tre millenni e mezzo fa, altri piccoli centri di vita esistessero nel circondario di cui abbiamo considerato come epicentro le miniere di Monte Tabuto; i villaggi che abbiamo elencati sono quelli di cui è giunta qualche traccia, a volte labilissima, sino a noi. Il termine villaggio, però, non deve trarre in inganno sulle effettive dimensioni di questi modestissimi abitati; in genere, si trattava di poche capanne che ospitavano qualche decina di famiglie, probabilmente legate ad un unico ceppo familiare.
Le capanne avevano forma ovale o circolare, con un diametro approssimativo fra i tre metri e cinquanta ed i quattro metri; l’alzato era sostenuto da pali di legno infissi in buche ricavate nella roccia. Il perimetro delle capanne era costituito, a volte, da uno zoccolo di pietrame, che non di rado raggiungeva il metro di altezza; questo muretto, laddove la capanna non poggiava direttamente sulla roccia, serviva da sostegno ai pali dell’alzato. Le pareti, che si congiungevano sul tetto a schiena d’asino, erano fatte, si pensa, di un misto di canne e paglia cementato da fango argilloso; il fondo della capanna, cioè il pavimento, era in terra battuta che colmava gli eventuali dislivelli della roccia. Tutto ciò spiega perché il tempo non abbia conservato tracce consistenti della loro antica presenza: scarse e deboli strutture murarie, infrequenti segni sulla roccia, copertura in materiale marcescibile.
I villaggi sorgevano sempre in alture naturalmente ben difese o artificialmente fortificate; esempio tipico è quello della Cava della Signora, presso Castelluccio, «una valletta che costituisce l’alto corso di sinistra del medio Tellaro e che delimita un terrazzo di circa un ettaro di superficie, protetto da ertissimo rampante roccioso che da occidente va restringendosi in una lingua di scoglio larga pochi metri, con i fianchi precipiti e di facile protezione8)»; una vera fortezza naturale preistorica, con l’acropoli-fortilizio, un unico accesso tagliato nella roccia; il tutto, cinto da un fossato, oltre il quale si trovavano le pareti a picco9.
Questo era l’ambiente naturale ed umano in cui era inserito il piccolo centro indigeno di Monte Tabuto e che costituiva il mercato di esportazione delle selci grezze o lavorate. Di questo modesto villaggio preistorico è giunto sino a noi mezzo fondo di capanna soltanto: prova sufficiente, comunque, di una presenza umana sul posto di lavoro; come in innumerevoli casi del genere, la natura e gli uomini hanno fatto sparire le testimonianze più consistenti e significative.
Alle miserabili condizioni di vita di questo popolo di minatori, fa contrasto il ricco assortimento di vasellame che, pur essendo destinato agli usi comuni e pratici della vita di ogni giorno, con speciale riferimento al lavoro in miniera, denota un elevato senso artistico ed un gusto particolare ed isolato che non trova riscontro nelle altre stazioni del primo periodo siculo.
«L’industre colonia mineraria di Monte Tabuto — scrive Paolo Orsi — per quanto dedita precipuamente alla estrazione della selce, che in parte doveva lavorare sul posto e in parte mettere in commercio ancora grezza10 non trascurò di volgere le sue cure alla ceramica, di una ricchezza e vivacità di decorazione che forma la maggior sorpresa di quanti archeologi studiano questa fase antichissima della cultura insulare»11.
II contrasto tra la raffinata fattura e l’elegante decorazione del vasellame, da una parte, ed il basso tenore di vita della tribù e la povertà dell’industria litica, dall’altra, trova riscontro soltanto nello stesso anacronistico rapporto della precedente cultura di Stentinello.
Fig. 16 - Materiale fittile delle miniere di Monte Tabuto e dai sepolcri di Monte Racello. Da P. Orsi: Miniere di selce. Disegni di R. Carta. - Bacinella a base conica, da Monte Tabuto; alt. cm. 21. B - Anfora biansata, da Monte Tabuto; alt. cm. 22. C - Pentolino grezzo, da Monte Tabuto; alt. cm. 11.5; D - Coltello di selce a ritocco fine, da Monte Tabuto; lungh. cm. 6,5. E - Tazza con ansa e cornetti rudimentali di creta plumbea, tirata a superficie lucida, da Monte Racello; alt. cm. 6. F - Bottino a forma ovolare, a quattro anse, decorato con un cordone a rilievo, da Monte Tabuto; alt. cm. 48. G - Bicchiere a clessidra biansato, da Monte Racello; alt. cm. 12. H - Bicchiere a clessidra monoansato, da Monte Racello; alt. cm. 10. I - Bicchiere a clessidra monoansato, da Monte Racello; alt. cm. 10.I tre bicchieri di cui alle lettere G, H, I, sono di colore rosso smagliante, con fregi neri, decorati con triangoli opposti e tremoli.
L’Orsi ritenne, comunque, d’aver trovato gli incunaboli di questa tecnica policroma — nata, sviluppata e morta in Sicilia — nella ceramica della Grotta di Calafarina, da lui esplorata tra il dicembre del 1897 ed il gennaio dell’anno successivo. Ma nella relazione sugli scavi eseguiti in questa strana e famosa grotta naturale, manca ogni riferimento alla ceramica di Monte Tabuto e, purtroppo, una qualsiasi conclusione sull’anticipato riscontro.
La leggenda ha fatto di Calafarina un antro misterioso in cui si sono dati convegno, nel corso dei secoli, ladri e corsari, fantasmi e principesse arabe. Sino a metà del ventesimo secolo, non è mancato chi, seguendo una tradizione che risale all’alto medio evo, ha rovistato nelle sue viscere, in cerca di tesori nascosti; e, ancora oggi, villani e pescatori di Marzamemi — solo che si entri in confidenza — esprimono la tranquilla certezza che la truvatura è lì, inviolata e immutabile, a disposizione di colui che, con un rito magico appropriato, riuscirà a rompere l’incantesimo secolare12.
Certo è che questa bellissima galleria sotterranea, che si addentra per circa un centinaio di metri nella terrazza rocciosa lambita dal mare africano, sorretta in più punti della zona terminale da un fantasmagorico colonnato di stalattiti e stalagmiti, ha esercitato un fascino irresistibile sin dalla più remota antichità.
Gli scavi condotti dall’Orsi in stretta economia, rivelarono che la grotta era stata abitata quasi ininterrottamente durante le varie epoche storiche e preistoriche, delle quali restituirono numerosi avanzi litici e fittili di strumenti e suppellettili sicani, siculi, greci, romani e bizantini.
L’attenzione dell’Orsi si rivolse sopratutto al cocciame preellenico che, per le sue particolari caratteristiche, forma, cottura e decorazione, si differenziava da quello sin’allora noto; ed è forse in questa dichiarazione che si può individuare il semplice, anonimo accenno di riscontro ai grandi vasi di Monte Tabuto. Ma, pur affermando che l’industria vascolare colorata di Calafarina era nettamente diversa ed anteriore alla sicula del primo periodo, non si ritenne sufficientemente documentato per stabilire una meno incerta datazione che avrebbe posto «un arduo problema etnografico».
Il materiale più antico raccolto dall’Orsi consisteva in due coltelli di selce ed uno di ossidiana, in una bella ascia di basalto e in una piccola macina dello stesso materiale, con il relativo pestello, oltre a due pendagli di pietra, quattro punteruoli d’osso, quattro perline e due fuseruole fittili13.
In uno dei due coltelli di selce, il Bernabò Brea, mezzo secolo più tardi, riconobbe «uno strumento di tipo evidentemente paleolitico, una lama a dosso ribattuto, non molto lontana dal tipo detto di Chàtelperron» e trasse la conclusione che nella grotta potessero esistere livelli più antichi di quelli scoperti ed illustrati dal suo predecessore14.
Ma, a scavi effettuati «nel piccolo lembo di deposito riconosciuto intatto ed appartenente alla più vecchia fase culturale della caverna», il Bernabò Brea dovette riconoscere non solo che a Calafarina mancavano «le tracce delle più antiche fasi del Neolitico» e che «nulla lasciava supporre nella caverna la presenza di strati più antichi, pleistocenici», ma altresì che lo strumento di selce che aveva dato l’avvio ai suoi scavi, era da ritenere «entrato casualmente fra i materiali della caverna, raccolto in quella non lontana di Corruggi, ricca di industria paleolitica».
_______________________1) La relazione, pubblicata nel BPI, anno XXI, pp. 160-166, fu duramente stroncata dall’Orsi, il quale fece carico al Pennavaria d’avere scritto cose mirabili e strane, dichiarando presicule e sepolcrali le grotte di Monte Tabuto e attribuendole ad Heteo-Pelasgi provenienti dall’Asia. «Se il dottor Pennavaria — concludeva l’archeologo, con sufficienza professionale — vorrà in avvenire secondare i nostri studi, si limiti alla constatazione rigorosa dei fatti, ma lasci le teorie aree (?) e cervellotiche, ed allora gli saremo gratissimi». Cfr. l’opera citata nella seguente nota, p. 9.
2) P. Orsi: Miniere di selce e sepolcri eneolitici a Monte Tabuto e Monte Racello, presso Comiso. Si veda anche, l’Appendice, sub 13.
3) Cfr. J. D. Clark: Europa preistorica, op. cit. , p. 223.
4) Della fiaccola da noi ipotizzata in un ramo resinoso o in uno stoppino imbevuto di grasso, appunto perché fatta di materiale putrescibile, non è rimasta traccia. Ci sembra difficile, però accettare che il lavoro di scavo, di ricerca, di individuazione e di estrazione dei filoni di selce, possa essere stato condotto nel buio assoluto della miniera. Siamo costretti, comunque, ad escludere l’uso di una primitiva lucerna, fittile o litica, che non era ignota già da molti millenni in altre regioni europee, perché essa non è stata ritrovata sul posto, come gli altri oggetti citati nel testo. Sulle lampade di pietra, usate dall’uomo paleolitico per illuminare i recessi bui delle grotte, sulle cui pareti ha lasciato testimonianze eccezionali della sua arte, si veda l’Appendice, sub 6.
5) Nello strato castellucciano di Castiglione si sono trovati molti rifiuti della lavorazione della selce proveniente da Monte Tabuto. Cfr. P. Pelagatti e M. Del Campo: Abitati siculi: Castiglione, p. 36. Cfr., anche, infra, il paragrafo 2 del capitolo Vili.
6) Bidis, Bidini, presso Acate. Cfr. B. Pace: Arte e Civiltà, op. cit., voi. I, p. 312; G. Di Stefano: Saggi a Poggio Bidini sul Dirillo, op. cit., pp. 647-50; Idem: Il villaggio preistorico di Poggio Bidini, p. 5 e ss.
7) Sulle località citate, cfr. L. Bernabò Brea: La Sicilia, op. cit., p. 3 e ss.; P. Orsi: Villaggio, officina litica, op. cit.; Idem: Due villaggi del primo periodo siculo, p. 158 e ss.; e B. Pace: Arte e civiltà, op. cit., voi. I, pp. 334-343.
8) B. Pace: Arte e civiltà, op. cit., voi. I, p. 332; cfr., anche, P. Orsi: Necropoli siculo di Castelluccio e Scarichi del villaggio siculo di Castelluccio, passim.
9) Cfr., supra, p. 40.
10) Cfr. Appendice, sub 13.
11) P. Orsi: Miniere di selce, op. cit., p. 312.
12) Noto fu l’ultima fortezza araba ad arrendersi ai Normanni, nell’anno 1091; l’emiro Ali ben Avert la cedette a condizione che la moglie ed il figlio, in piena libertà, potessero imbarcarsi per l’Egitto. Munita di un salvacondotto normanno, la principessa uscì dalla città assediata con cento muli carichi di tesori ed una imponente scorta di trecento arabi, tra cui il poeta Ibn Hamdis. A Marzamemi, luogo dell’imbarco, la principessa fermò la carovana, a seguito di un dubbio che, durante il viaggio, non aveva smesso di tormentarla: la paura di un agguato sul mare, da parte dei Normanni, con l’intento di derubarla del prezioso carico. Scoperta la grotta di Calafarina, decise di sotterrarvi gli ori, i diamanti, le perle, i rubini, i brillanti, gli smeraldi: una montagna di inestimabile valore. Nell’antro, gli schiavi completarono il loro duro lavoro, ma non ne uscirono vivi; i guerrieri, appostati all’ingresso (perché non venissero a conoscenza del sito in cui era stata sepolta la montagna di luce), li uccisero tutti quanti perché il segreto rimanesse tale per sempre. Con un rito magico, la principessa legò le loro anime a guardia del nascondiglio, in attesa che tempi migliori le- permettessero di rientrare in possesso dell’immenso tesoro. L’occasione, però, non si presentò mai, perché i Normanni non lasciarono la Sicilia per ancora un secolo ed ai Normanni seguirono gli Svevi e, via via, tutta una serie di regnanti locali o stranieri, ma tutti egualmente cristiani. Ed il tesoro è rimasto nella grotta, reso invisibile dalle anime degli schiavi arabi, e tale rimarrà sino a quando appropriati misteriosi scongiuri non romperanno l’incantesimo secolare, quasi millenario. Cfr. G. Passarello: Guida alla città di Noto, p. 187. Sul cerimoniale magico tradizionale, ancora vivo e seguito nell’isola, cfr. P. Mule: Magia e superstizione nel popolo siciliano, p. 71 e passim.
13) P. Orsi: Necropoli e stazioni sicule di transizione: la Grotta di Calafarina, presso Pachino, abitazione e sepolcro, p. 3 e ss.
14) La relazione sugli scavi condotti a Calafarina dal Bernabò Brea, nel 1945, è contenuta nel volume di Bruno Ragonese: Nel buio di Calafarina, pp. 58-61.