Un oggetto che attirò la curiosità degli studiosi e che ancora oggi si presta a molteplici congetture sulla sua destinazione, fu la metà di un osso tubolare, tirato a lucido nella parte convessa, decorato con sette globuli a rilievo, su una fitta trama arabescata. I globuli, alcuni circolari, altri scarabeoidi, mostravano tracce di originari graffiti, consunti per lungo uso. Il Maugini espresse il dubbio che potesse trattarsi di un oggetto ornamentale «stanteché vi sono dei fori alle singole estremità», ignorando che, per allora,il misterioso oggetto era l’unico del genere trovato in Sicilia 1. Dieci anni più tardi, Paolo Orsi, nel corso di una fortunata campagna di scavi, condotta tra il 1890 ed il 1891, ebbe la ventura di trovare sei esemplari identici in alcuni sepolcri intatti della necropoli di Castelluccio. Essi costituirono una novità anche per l’insigne archeologo; il quale non riuscì a conciliare la presenza di un manufatto tanto raffinato, in mezzo alla massa rozza della suppellettile funebre sicula del primo periodo, se non ritenendolo oggetto di importazione 2.
Ma, per quanto riguarda l’uso cui gli strani oggetti potessero essere serviti, anche l’Orsi dovette limitarsi a delle congetture non prive di dubbi. Azzardò l’ipotesi che potessero essere rivestimenti di impugnature di armi metalliche; ma a sfavore di essa deponeva la mancanza, in alcuni esemplari dei fori di adattamento al codolo dell’arma e l’assenza della stessa nel sepolcro non violato 3, per cui ritenne più prudente rimandare ad altra occasione — che non si presentò più — una spiegazione plausibile.
Dieci anni prima della scoperta di questo discusso reperto di Cava Lazzaro, e vent’anni prima del ritrovamento di Castelluccio, lo Schliemann ne aveva trovati due di eguali nel secondo strato della collina di Hissarlick 4. Il più fortunato archeologo del mondo 5 li classificò come oggetti di ornamento, fatti di una sostanza più leggera della porcellana egizia. I due errori in cui incorse furono, rispettivamente, il non avere accertata, mediante analisi di laboratorio, la provenienza animale della materia prima, e l’avere identificato la Ilio di Omero nelle rovine, recanti tracce d’incendio, del secondo e terzo strato della collina di Hissarlick 6. Troia fu riconosciuta, senza possibilità di dubbi, quando Schliemann era già morto, nel settimo strato inferiore; il che, ai fini della approssimativa datazione degli oggetti in esame, ci riporta indietro di almeno mille anni sull’età del preteso tesoro di Priamo, vale a dire tra la metà e la fine del terzo millennio a.C. 7b
A giudicare dalla decorazione, sono tutti d’accordo nel ritenere questi rarissimi oggetti d’osso, prodotti fenici o ispirati a motivi della pittura vascolare fenicia; la loro presenza nel secondo strato di Troia non appare eccessivamente in contrasto con il resto della suppellettile indigena, oggetti in oro finemente lavorati, e si concilia con la relativa vicinanza delle stazioni fenicie. Ma spiegare analogamente la loro presenza nei sepolcri castellucciani significherebbe ammettere che i Fenici sono approdati in Sicilia molto tempo prima di quanto gli storici siano disposti ad accettare.
Biagio Pace, nel suggerire, con poca convinzione, che possono essere else di pugnali, esclude qualunque parallelismo cronologico con le ossa lavorate di Troia e stabilisce «un chiaro e significativo raffronto artistico» con i celebri diademi d’oro di Micene e con la lamina aurea di Preneste, databili appena a qualche secolo prima del 1000 a.C. 8. L’osservazione fatta dal Pace all’Orsi — che, nel raffronto cronologico, tende ad una datazione più remota — ci sembra dettata da esclusivo amore di polemica. Ad una derivazione degli ossi a globuli siciliani — frutto di lavorazione locale o di importazione, qui non importa — dai modelli micenei, si può contrapporre, infatti, una derivazione di questi ultimi dagli ossi a globuli di Hissarlik. A parte la presunta analogia tra gli oggetti in osso e quelli in oro che, se non in forma molto generica di impostazione formale e non di uso, siamo disposti ad ammettere, dobbiamo prendere atto di un analogo accostamento espresso dal Gordon Childe, per il quale queste «placche d’osso a rilievo potrebbero essere niente altro che versioni degli ornamenti aurei delle antiche tombe reali di Alaga Huyiik, nell’Anatolia centrale» i quali, però, trovano più strette analogie a Troia e nel Medio Elladico di Lerna 9
Bernabò Brea non esita a classificare queste «creazioni fra le più perfette dell’artigianato preistorico siciliano» come idoletti estremamente stilizzati 10, versioni più o meno fedeli di una matrice comune che affonda le radici nel Vicino Oriente e che dall’Anatolia pervenne in Sicilia, attraverso l’Egeo e Malta, tra il 1800 ed il 1400 a.C., frutto delle relazioni commerciali con gli Egeomicenei, di cui tratteremo più avanti.
Dello stesso parere è Paola Pelagatti; in un breve commento al ritrovamento di due ossi a globuli a Castiglione (Scavi del Campo: 1969-1971), fra Ragusa e Comiso, essa afferma che questi «singolari oggetti d’osso decorati con una successione di globuli a rilievo ... costituiscono uno degli elementi di collegamento fra Sicilia ed Oriente», in cui si deve «forse, riconoscere una estrema schematizzazione della figura umana 11.
Duccio Belgiorno, appassionato e competente collezionista di strumenti musicali 12, ci ha recentemente suggerita una originalissima ipotesi che ci sembra molto interessante: gli ossi a globuli potrebbero essere dei primitivi strumenti musicali a carattere rituale che, ancora oggi, appaiono tra gli oggetti sacri di numerose popolazioni primitive.
Uno tra i maggiori studiosi dell’argomento afferma che «senza dubbio alcuno, non vi è strumento la cui forma, tecnica, suono e significato si accordino così intimamente come nel rombo, una tavoletta di legno, di osso o di metallo, generalmente pisciforme, dal bordo talvolta dentellato, e di cui una superficie può portare delle incisioni o una lisca mediana in rilievo. Un foro o una scanalatura ad una estremità permette di annodarvi una corda con l’altro capo fissato ad un manico o tenuto in mano; in virtù di un doppio movimento rotatorio, sia attorno a quest’ultimo che attorno all’asse dello strumento, si fa udire un ronzio caratteristico 13<».
Assieme ai flauti ed ai fischietti — ci informa un grande speleologo — questi rombi completavano il limitato corredo musicale nel culto dell’epoca glaciale. Questo strumento, trovato in numerose grotte preistoriche francesi, è tuttora in uso in Australia, dove viene denominato churinga 14.
Lo strumento, oltre che in Australia, è noto anche in Melanesia, presso i Boscimani, gli indiani e gli esquimesi; ma si hanno testimonianze numerose della sua presenza in Italia, anche in età contemporanea 15. Una abbondante letteratura etnografica e sociologica attorno al totemismo delle popolazioni primitive ci ha familiarizzato con resistenza di un materiale sacro, al centro del quale figura il rombo, il cui ronzio misterioso presiede agli atti di iniziazione o ai riti funebri e durante i quali viene identificato con il ruggito di un mostro, con le parole di uno stregone in maschera o anche con la voce degli antenati. E non può meravigliare il fatto che civiltà diverse e lontane attribuiscano un potere spesso identico alla rotazione sonora di un oggetto pisciforme che si crede emetta la voce di uno spirito 16.
«Il movimento rotatorio di tali strumenti, il significato magico legato forse all’idea del cerchio, ci conducono inevitabilmente alla danza rituale che precedeva la caccia, che accompagnava i riti propiziatori o che seguiva alle cerimonie funebri.Lo strumento era presente, forse, anche nelle celebrazioni dei misteri esoterici, nelle feste di carattere orgiastico in onore di Dioniso o di Saturno e rappresentava — con il suo ronzio ossessivo, segnato da una percussione frenetica di timpani, nel ritmo capace di crescere in velocità ed intensità, per assumere toni di delirio — un mezzo ineguagliabile per portare gli iniziati all’esaltazione ed all’ebbrezza fisica e spirituale. La danza rituale, così come ce la descrivono gli antichi scrittori, era un invito alla follia, che rendeva gli uomini pieni del dio; cioè, in preda al furore collettivo che genera l’idea religiosa 17.
Quella del rombo «è una voce sacra come quella del calabrone, di cui ripete il ronzio; il suo roteare rappresenta un viaggio circolare nello spazio e nel tempo, come fu il viaggio del totem creatore che, cantando e danzando, ha fatto tutte le cose, trasformandosi poi in strumento per non interrompere la sua opera feconda, rinnovata ogni volta che esso torna a fendere l’aria 18.
Forse, presso le popolazioni primitive antiche — come oggi presso quelle moderne — il rombo veniva costruito con significato propiziatorio, durante la gravidanza e collocato nella caverna dove il nuovo essere avrebbe preso contatto con la vita; con lui tornava ancora nella caverna, e qui rimaneva per sempre quando, al termine dell’esistenza, sopravveniva la morte.
Non perdendo di vista che la nostra è soltanto un’ipotesi tra le tante, il significato della presenza degli ossi a globuli in alcune nostre tombe preistoriche potrebbe essere ricercato proprio in queste credenze e in questi riti. Che, poi, non se ne siano trovati molti, a suffragare la supposizione, non ne diminuisce l’attendibilità; escludendo, infatti, l’impiego del metallo, perché ancora sconosciuto, al tempo hanno resistito soltanto i rombi costruiti in osso, mentre sono naturalmente scomparsi nella polvere quelli fatti in legno o in altro materiale marcescibile.
Pomello di spada, oggetto ornamentale, idoletto o strumento musicale, uno di questi stranissimi oggetti è pervenuto in nostro possesso, assieme ad un lungo ago d’osso, per la cortesia di un vecchio compagno d’armi, il prof. Vinicio Rizza. I due oggetti furono trovati nei primi anni di questo secolo, a quanto ci si dice, da un contadino di Cava Ispica, in una tomba intatta del gruppo Lavinaro 19
Questo oggetto misterioso, in tutto simile agli esemplari illustrati dai diversi ritrovatori, è la metà di un osso tubolare, sezionato longitudinalmente, rotto all’estremità inferiore, lungo 92 millimetri per una larghezza massima di 25. La faccia esterna, convessa, tirata a lucido, è decorata con otto globuli circolari, per la maggior parte lisci per la lunga usura; soltanto due di essi portano ancora lievi tracce di graffito geometrico. Il fondo da cui si sviluppano le otto piccole cupolette è fittamente reticolato a rombi; la parte terminale superiore, più stretta, contiene due fori, di cui uno rotto. La parte inferiore presenta un’antica frattura; nella parte mancante dovevano trovarsi altri due fori, destinati ad un oscuro impiego, ma certamente indispensabili. Prova ne sia che, successivamente alla rottura, i due fori furono ricavati di nuovo ed asimmetricamente nel pezzo rimanente; segno che doveva trattarsi di un oggetto di un qualche valore e che, anche se mutilato, poteva continuare ancora ad assolvere la sua misteriosa funzione.
L’ago è un pezzo molto comune, che non ha bisogno di particolare illustrazione; semmai, c’è da rilevare che, date le sue grandi dimensioni (è lungo, infatti, sette centimetri e mezzo, senza la cruna e la parte terminale della punta, ambedue mancanti), doveva servire per cucire assieme pelli o tessuti di notevole spessore e robustezza.
Nel 1905, l’Orsi espresse al Minardo, uno studioso locale a cui si deve la prima ed ancora insuperata monografia su Cava Ispica, l’intenzione di effettuare entro lo stesso anno, uno scavo sistematico nella caverna Lazzaro. Non possiamo biasimarlo se, preso in una routine che non gli lasciava respiro, non trovò il tempo di mantenere una promessa che avrebbe potuto darci una risposta definitiva sulla data del primo stanziamento umano in quella zona e, particolarmente, in quella grotta che conserva ancora, a distanza di un secolo dai primi saggi di scavo, lo strato più basso assolutamente vergine.
È rimasto vano l’appello che il von Andrian, a chiusura della sua relazione, rivolgeva alle autorità del luogo, perché l’esplorazione da lui iniziata venisse portata a termine 20. Conosciuta per merito suo e famosa in tutto il mondo, sino a ieri della Grotta Lazzaro non si conosceva neppure l’esatta ubicazione.
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1) «Dalla Grotta Lazzaro, presso Modica, pure naturale, si ebbero avanzi di vario genere, oltre quanto notò il barone von Andrian che vi istituì ricerche superficiali, possediamo una relazione del Maugini, in più punti oscura, edita con commenti del Pigorini; in complesso, sebbene l’esplorazione non sia stata condotta in modo adeguato e la illustrazione dei materiali non visti dal Pigorini lasci luogo a qualche dubbiezza, le ceramiche dipinte che essa contiene si richiamano alle grotte sicule, quindi del periodo eneolitico». In P. Orsi: Stazione neolitica di Stentinello, op. cit., p. 198. La relazione del Maugini, sotto il titolo di Scoperte preistoriche in Sicilia, apparve sulla ‘Rivista Scientifica Industriale’ di Firenze il 15 aprile 1879. Un estratto di essa fu pubblicato da Salvatore Minardo, nel 1905: Cava d’Ispica, op. cit., pp. 70-72.
2) Trent’anni dopo, un valente paletnologo fece sua l’opinione dell’Orsi. Cfr. G. Pinza: Storia delle civiltà antiche, op. cit., p. 185.
3) P. Orsi: Quattro anni di esplorazioni, op. cit., pp. 171-172.
4) Gli ossi a globuli di Hissarlik furono riprodotti ed illustrati dallo Schliemann in Ilios, edizione tedesca, pubblicata a Leipzig nel 1881. Nell’edizione francese, testo ed illustrazione sono collocati a p. 553 e in fig. 565.
5) «Innegabilmente — scrive Ranuccio Bianchi-Bandinelli, in Introduzione, op. cit., p. 85 — lo Schliemann, con la sua irrazionale fede in Omero mostrò una volta di più che soltanto le utopie fanno progredire il mondo». Sulle pagine più avventurose, forse più belle, dell’archeologia, scritte in prima persona sui luoghi stessi delle ricerche e delle scoperte, cfr. H. Schliemann: La Scoperta di Troia.
6) Gli strati vennero numerati a partire dal basso. Il primo strato fu definito preistorico, per l’assoluta mancanza di oggetti di metallo. La collina di Hissarlik restitui alla luce le rovine di ben otto città diverse.
7) «Molto tempo fa si dimostrò che i gioielli d’oro rinvenuti dallo Schliemann nel “grande tesoro” che si deve assegnare alla fase finale di Troia II, se non proprio contemporanei, precedono certamente di poco gli ornamenti trovati nelle tombe a fossa reali di Micene e, cioè, databili intorno al 2200 a.C.» Carl W. Blegen: Troia e troiani, p. 172. Secondo lo stesso archeologo americano, il quadro cronologico delle otto città di Troia è il seguente:
Troia I | 3000-2500 a.C. | Troia VI | 1800-1300 a.C. |
Troia II | 2500-2200 a.C. | Troia VII a | 1300-1260 a.C. |
Troia VII | 2200-2050 a.C. | Troia VII b/1 | 1260-1190 a.C. |
Troia IV | 2050-1900 a.C. | Troia VII b/2 | 1190-1100 a.C. |
Troia V | 1900-1800 a.C. | Troia Vili | 700 a.C. |
Cfr., inoltre, G. Huxley: La storia che ispirò Omero, p. 41; e G. Maddoli: Troverò l’antica Troia — una rassegna degli scavi e delle scoperte di Schliemann a Troia, Micene e Tirinto —, pp. 778-800.
8) B. Pace: Arte e civiltà, op. cit., voi. I, p. 146.
9) V. Gordon Childe: L’alba, op. cit., p. 274.
10) Accettando la teoria dell’inglese J.D. Evans. Cfr. L. Bernabò Brea: La Sicilia, op. cit., p. 109; dello stesso autore: Considerazioni sull’Eneolitico, op. cit., p. 57.
11) Cfr. P. Pelagatti: Il Museo Archeologico di Ragusa, in AI, p. 8; oppure in SA, p. 26.
12) Attuale Direttore del Museo Civico di Modica, a cui si deve gran parte della realizzazione di un ricco e vario Museo Etnografico, intitolato a S. A. Guastella.
13) A. Schaeffner: Orìgine degli strumenti musicali, pp. 147-50. Un’altra versione dello stesso strumento è il cosiddetto ‘diavolo’, un piccolo disco di pietra, di legno o di metallo, forato in due punti attraversati da una corda che si avvolge e si svolge, tirandone le estremità; questo movimento di torsione provoca la rotazione dello strumento e il suo caratteristico ronzio. Il ‘diavolo’ ha lo stesso carattere sacro del ‘rombo’, ma è meno diffuso. Al testo dello Schaeffner, si accompagnano alcune illustrazioni del rombo, tanto nella versione preistorica che in quella moderna della Nuova Guinea, che ricalcano quasi fedelmente la forma e le dimensioni dei nostri ‘ossi a globuli’.
14) H. Kuhn: L’alba, op. cit., p. 269. Si tratta di lunghi pezzi di legno a forma elissoidale (mediamente: cm. 17 x 3,5), con incisioni ornamentali, che presentano ad una estremità un forellino per introdurvi il filo, o una piccola sporgenza per avvolgerglielo.
15) Cfr. G. Tintori: Gli strumenti musicali, pp. 59-60. L’autore riporta la sua personale testimonianza sulla presenza di questo strumento a Venezia, alla quale noi possiamo aggiungere quella nostra personale sulla diffusione del ‘rombo’ — che, in dialetto, veniva chiamato lapuni — tra i ragazzi della nostra generazione, nell’area della Sicilia meridionale. Il ‘rombo’ che il Tintori, con un termine da lui coniato, chiama xiloaerofono, non deve essere sconosciuto neppure in altre parti d’Europa, se — come afferma — gli inglesi lo chiamano bull-roarer, toro ruggente, o whizzing-stick, bastone sibilante; i tedeschi schwirrholz, e i francesi planchette ronflante, ossia tavoletta Tonfante.
16) R. Schaeffner: Origine, op. cit., p. 148. Il Collins (L’avventura della preistoria, op. cit., p. 159) ci informa che gli uomini del Paleolitico eseguivano una primitiva cadenza musicale a mezzo di flauti, zufoli e «ciondoli ovali che erano probabilmente strumenti rumorosi, destinati a produrre il suono di un ronzio e prediletti nelle cerimonie di carattere magico». Sul ‘rombo’, quale strumento rituale impiegato nelle iniziazioni, cfr., anche, A. Brelich: Paides e Parthenoì, p. 68, nota 56 e ss.
17) R. Schaeffner: Origine, op. cit., p. 148
18) G. Tintori: Gli strumenti, op. cit., p. 60.
19) I particolari in Appendice, sub 12.
20) «Ich kann somit nur den Wunsch aussprechen, dass der in Folge meiner Grabungen und miindlicher Vorstellungen beim Burgermeister gefasste Beschluss, die Grotte Lazzaro auf Kosten der Stadt Modica vollstàndig ausbeuten zu lassen, bald ausgefùhrt werden moge». F. von Andrian: Pràhistorische, op. cit., p. 82.