Nascita de “La Voce di Modica”
Tra storia e cronaca, pp. 249-251
Ci riunimmo, una sera del tardo settembre del 1948, nella bettola "Scordapeni" di Pozzallo, sull’arenile di Raganzino, per definire e portare a compimento il progetto di dar vita ad un settimanale indipendente d'informazione, a carattere provinciale.
Eravamo in otto; sette, oltre me: Franco Libero Belgiorno, che aveva già una notevole esperienza giornalistica, suo fratello Arnaldo, l’unico tra noi ad avere una tessera di giornalista, il ragioniere Aldo Marino, l’avvocato Bruno Grana, il ragioniere Peppino Muriana e il dottore Gregorio Cataldo.
Tra un piatto di calamari arrosto e un altro di triglie, merluzzi e gamberoni, fritti in puro olio vergine d'oliva, il tutto annaffiato senza parsimonia con robusto vino di Pachino, discutemmo e trattammo di tutto: dalla testata da dare al giornale al finanziamento iniziale, dalla formazione del corpo redazionale alla distribuzione degli incarichi, dal formato del settimanale alla scelta di una manchette di prima pagina, dagli abbonamenti alla raccolta della pubblicità, dalla tipografia cui affidare la nostra creatura alla ricerca di collaboratori che dessero, particolarmente nei primi numeri, prestigio al giornale. In questo settore, Arnaldo Belgiorno si era già assicurata la collaborazione dell'onorevole Guerrieri, dell'avvocato Nifosi e del preside Aprile. Nel campo della pubblicità, Peppino Muriana aveva raccolto diverse adesioni di commercianti locali e la promessa degli uffici giudiziari, di pubblicare sul nostro foglio gli avvisi d'asta e le comunicazioni di condanna per reati annonari.
Nella distribuzione degli incarichi, Arnaldo Belgiorno fu eletto direttore responsabile, con la collaborazione di due condirettori: mia e di Peppino Muriana. L’elezione, approvata all'unanimità, non poteva sortire risultato diverso perchè proprio su noi tre gravava il peso finanziario di tutto. L'occasione mi permette di ricordare che il mio stipendio di comandante dei vigili urbani era di £. 8.618 mensili; di £. 8.450, quello di Muriana e poco più di £. 7.000 quello di Belgiorno. Per i servizi di carattere economico e filosofico, fu scelto Aldo Marino; per quelli giuridici e sociali, Bruno Grana. Il campo politico fu riservato a Ciccio Giannone; gli editoriali e gli articoli di fondo, ai fratelli Belgiorno. A me furono assegnati i servizi di cronaca e la terza pagina. Particolarmente laboriosa fu la scelta di una manchette da collocare a destra dell'intestazione, come marchio di fabbrica, come simbolo, come significativa mascotte; insomma, un po' di tutto questo, assieme.
Con una sottile fitta di tenerezza, ricordo i testi proposti da quattro di noi, unitamente ad una breve illustrazione del significato palese o recondito. Si era arrivati alla frutta e al brindisi con liquori di marca; l’atmosfera era leggermente accaldata e molto allegra. Arnaldo propose una frase di Placido Carrafa: "Il poco ch'io narro, altri l’accresca". È un invito alla collaborazione e alla emulazione – spiegò -; quasi una gara per uno stesso fine: la resurrezione civile, economica e politica della nostra Modica. Ciccio suggerì la frase latina: "Absit iniuria verbo". Parecchi nostri servizi – disse - potranno dare motivo a proteste e a risentimenti, da parte di enti locali e provinciali; agli amminitratori che faranno da bersaglio alle nostre frecce, vogliamo spiegare, con la nostra manchette, che non c'è niente di personale e che nelle nostre parole non c'è l'intenzione di offendere. Gregorio consigliò un endecasillabo dantesco “Parva favilla gran fiamma seconda”. La nostra modesta opera di segnalazione e di critica - illustrò - su fatti e misfatti cittadini, servirà a dare l'avvio a modifiche dello status quo, a iniziative, a realizzazioni, ad opere che, comunque, andranno a beneficio della collettività. Non so perché, si affacciò alla mia mente uno degli aforismi cari all'imprevedibile Anna Marchi: "È inutile arrivare dove nessuno aspetta".
Erano passati sei anni da quella volta in cui, quasi distrattamente, l’avevo sentito declamare dalla estroversa maestrina che si era fatta trasferire a Rodi per sopire una delusione amorosa. Ogni nostro sforzo - dissi - e ogni nostro sprone per rimuovere le acque stagnanti di questa morta gora, saranno inutili, se non troveranno riscontro nella comprensione e nella fattiva operosità degli amministratori locali e provinciali. Il nostro augurio è che l'aforisma sia smentito. La frase e il suo significato incontrarono il favore della maggioranza e, con cinque voti a favore, su otto, la pessimistica riflessione di Anna Marchi apparve a fianco della testata del giornale.
Il primo numero del battagliero settimanale uscì il 7 novembre del 1948, con gli antidiluviani tipi della tipografia dei fratelli Puglisi di Ragusa. Nel corso dei frequenti black-out, gli antiquati macchinari dovevano essere azionati a forza di braccia. La composizione era di quelle in uso per le edizioni aldine; ogni parola veniva composta lettera per lettera con l’alfabetiere di piombo; ed era un vero problema, che importava tempo e pazienza, la correzione delle bozze. Per andare e venire da Ragusa - due o tre volte ogni settimana - Giovannino Gieri (bravo autista e meccanico, vigile urbano e amico personale) ci fece acquistare, per centomila lire, una Fiat 509 di seconda mano, una vettura che, oppressa dalla vecchiaia, era costretta a sopportare il peso di cinque e, a volte, di sei persone. Alla nostra scuola pioneristica, si fecero le ossa Lino Blundo, attuale corrispondente de "La Sicilia", e Giovanni Pluchino, attuale corrispondente del "Giornale di Sicilia".
Il nostro giornale, completo dei numeri del lotto, veniva piegato e impacchettato intorno alle due o alle tre di notte, tra il sabato e la domenica. Ma prima di tornare a Modica, per consegnare al tripolino Hanna i giornali da vendere attraverso un cantilenante bandizzamento, era rituale una visita ad una delle tre sale da ballo che animavano la Ragusa notturna, oppure una capatina al "Ragno d'oro", per scaricare il nervosismo accumulato in dodici ore di massacrante lavoro.
Era il tempo di cui si è perso il ricordo; quel tempo che ha lasciato una punta di struggente malinconia, in chi lo ha vissuto. E non tanto per quello che offrì alla nostra immatura esperienza, quanto per il rimpianto di tutto ciò che rimane legato alla nostra giovinezza.
Eravamo in otto; sette, oltre me: Franco Libero Belgiorno, che aveva già una notevole esperienza giornalistica, suo fratello Arnaldo, l’unico tra noi ad avere una tessera di giornalista, il ragioniere Aldo Marino, l’avvocato Bruno Grana, il ragioniere Peppino Muriana e il dottore Gregorio Cataldo.
Tra un piatto di calamari arrosto e un altro di triglie, merluzzi e gamberoni, fritti in puro olio vergine d'oliva, il tutto annaffiato senza parsimonia con robusto vino di Pachino, discutemmo e trattammo di tutto: dalla testata da dare al giornale al finanziamento iniziale, dalla formazione del corpo redazionale alla distribuzione degli incarichi, dal formato del settimanale alla scelta di una manchette di prima pagina, dagli abbonamenti alla raccolta della pubblicità, dalla tipografia cui affidare la nostra creatura alla ricerca di collaboratori che dessero, particolarmente nei primi numeri, prestigio al giornale. In questo settore, Arnaldo Belgiorno si era già assicurata la collaborazione dell'onorevole Guerrieri, dell'avvocato Nifosi e del preside Aprile. Nel campo della pubblicità, Peppino Muriana aveva raccolto diverse adesioni di commercianti locali e la promessa degli uffici giudiziari, di pubblicare sul nostro foglio gli avvisi d'asta e le comunicazioni di condanna per reati annonari.
Nella distribuzione degli incarichi, Arnaldo Belgiorno fu eletto direttore responsabile, con la collaborazione di due condirettori: mia e di Peppino Muriana. L’elezione, approvata all'unanimità, non poteva sortire risultato diverso perchè proprio su noi tre gravava il peso finanziario di tutto. L'occasione mi permette di ricordare che il mio stipendio di comandante dei vigili urbani era di £. 8.618 mensili; di £. 8.450, quello di Muriana e poco più di £. 7.000 quello di Belgiorno. Per i servizi di carattere economico e filosofico, fu scelto Aldo Marino; per quelli giuridici e sociali, Bruno Grana. Il campo politico fu riservato a Ciccio Giannone; gli editoriali e gli articoli di fondo, ai fratelli Belgiorno. A me furono assegnati i servizi di cronaca e la terza pagina. Particolarmente laboriosa fu la scelta di una manchette da collocare a destra dell'intestazione, come marchio di fabbrica, come simbolo, come significativa mascotte; insomma, un po' di tutto questo, assieme.
Con una sottile fitta di tenerezza, ricordo i testi proposti da quattro di noi, unitamente ad una breve illustrazione del significato palese o recondito. Si era arrivati alla frutta e al brindisi con liquori di marca; l’atmosfera era leggermente accaldata e molto allegra. Arnaldo propose una frase di Placido Carrafa: "Il poco ch'io narro, altri l’accresca". È un invito alla collaborazione e alla emulazione – spiegò -; quasi una gara per uno stesso fine: la resurrezione civile, economica e politica della nostra Modica. Ciccio suggerì la frase latina: "Absit iniuria verbo". Parecchi nostri servizi – disse - potranno dare motivo a proteste e a risentimenti, da parte di enti locali e provinciali; agli amminitratori che faranno da bersaglio alle nostre frecce, vogliamo spiegare, con la nostra manchette, che non c'è niente di personale e che nelle nostre parole non c'è l'intenzione di offendere. Gregorio consigliò un endecasillabo dantesco “Parva favilla gran fiamma seconda”. La nostra modesta opera di segnalazione e di critica - illustrò - su fatti e misfatti cittadini, servirà a dare l'avvio a modifiche dello status quo, a iniziative, a realizzazioni, ad opere che, comunque, andranno a beneficio della collettività. Non so perché, si affacciò alla mia mente uno degli aforismi cari all'imprevedibile Anna Marchi: "È inutile arrivare dove nessuno aspetta".
Erano passati sei anni da quella volta in cui, quasi distrattamente, l’avevo sentito declamare dalla estroversa maestrina che si era fatta trasferire a Rodi per sopire una delusione amorosa. Ogni nostro sforzo - dissi - e ogni nostro sprone per rimuovere le acque stagnanti di questa morta gora, saranno inutili, se non troveranno riscontro nella comprensione e nella fattiva operosità degli amministratori locali e provinciali. Il nostro augurio è che l'aforisma sia smentito. La frase e il suo significato incontrarono il favore della maggioranza e, con cinque voti a favore, su otto, la pessimistica riflessione di Anna Marchi apparve a fianco della testata del giornale.
Il primo numero del battagliero settimanale uscì il 7 novembre del 1948, con gli antidiluviani tipi della tipografia dei fratelli Puglisi di Ragusa. Nel corso dei frequenti black-out, gli antiquati macchinari dovevano essere azionati a forza di braccia. La composizione era di quelle in uso per le edizioni aldine; ogni parola veniva composta lettera per lettera con l’alfabetiere di piombo; ed era un vero problema, che importava tempo e pazienza, la correzione delle bozze. Per andare e venire da Ragusa - due o tre volte ogni settimana - Giovannino Gieri (bravo autista e meccanico, vigile urbano e amico personale) ci fece acquistare, per centomila lire, una Fiat 509 di seconda mano, una vettura che, oppressa dalla vecchiaia, era costretta a sopportare il peso di cinque e, a volte, di sei persone. Alla nostra scuola pioneristica, si fecero le ossa Lino Blundo, attuale corrispondente de "La Sicilia", e Giovanni Pluchino, attuale corrispondente del "Giornale di Sicilia".
Il nostro giornale, completo dei numeri del lotto, veniva piegato e impacchettato intorno alle due o alle tre di notte, tra il sabato e la domenica. Ma prima di tornare a Modica, per consegnare al tripolino Hanna i giornali da vendere attraverso un cantilenante bandizzamento, era rituale una visita ad una delle tre sale da ballo che animavano la Ragusa notturna, oppure una capatina al "Ragno d'oro", per scaricare il nervosismo accumulato in dodici ore di massacrante lavoro.
Era il tempo di cui si è perso il ricordo; quel tempo che ha lasciato una punta di struggente malinconia, in chi lo ha vissuto. E non tanto per quello che offrì alla nostra immatura esperienza, quanto per il rimpianto di tutto ciò che rimane legato alla nostra giovinezza.