Abelardo ed Eloisa
Sicilia medievale, pp. 694-736

Etienne Gilson, storico francese della filosofia medievale, ammette che nessun'altra figura di filosofo medievale ha esercitato tanta suggestione quanta ne ha esercitato Abelardo presso i contemporanei e i posteri; ma lo ritiene più grande per l'attrattiva che esercita la sua personalità, che non per l'originalità della sua speculazione filosofica.
Non del tutto d'accordo con il Gilson, sono portato a considerare Abelardo una figura eccezionale nell'uno e nell'altro aspetto. Eccezionale come uomo, nella tragica vicenda vissuta con Eloisa; eccezionale come filosofo, nella sua opposizione critica al fanatismo bigotto e conservatore di Bernardo di Chiaravalle.

Della storia di Abelardo si sono occupati filosofi e poeti, storici e romanzieri; ma Abelardo ha preceduto tutti, detrattori ed apologeti, offrendo alla critica contemporanea e successiva una immagine umana che varca e supera i limiti ristretti della dialettica e della teologia, in cui fu maestro, per assurgere al mito, con la sua autobiografica ”Historia calamitatum mearum” che narra, in uno stile fortemente colorito, le vicende dei primi cinquant'anni della sua vita; un’opera che, a parte i pregi letterari, rimane unica come memoriale lasciato da un filosofo in tutto il Medioevo.

«L’alone drammatico delle sue molte sventure — scrive Franco Alessio —, l'aureola alla sua gloria di maestro e di pensatore; il ritratto di un impasto singolare di passionalità e di ingegno, di acutezza e di audacia, di spirito d'avventura e di fedeltà ad una vocazione; e ancora: il quadro di un mondo di santi, di meschini e di peccatori, che lo abbatte e lo umilia nella carne e nello spirito; e di se stesso peccatore e del mondo, accusatore implacabile; il quadro di un duello in cui egli campeggia come la voce stessa dell'appello alla ragione, quale vocazione e destino dell'uomo; l'analisi di una personalità complessa sino a rasentare la contraddizione, chiusa sino all'asprezza, incontentabile e puntigliosa, attraversata da una forza sentimentale impetuosa, che conosce tutte le esperienze e accarezza tutte le fantasie e, insieme, da bisogni inquieti e da richiami costanti alla chiarezza, alla distinzione di una forza intellettuale lucidissima... Tutto questo, e altro ancora, con il fascino della seduzione, Abelardo offre a quanti, storici e poeti, si sono occupati della sua avventura umana1”.

Spirito bellicoso fin dalla sua giovinezza — come lo descrive san Bernardo —, Abelardo contestò le dottrine che maestri illustri tentarono di inculcargli, opponendo il suo realismo estremo al nominalismo sostenuto da Roscellino di Compiègne, di cui era stato allievo a Loches, tra il 1092 e il 10992. Fin dalle prime dispute — che non mancarono di destare il sospetto nella ortodossia ufficiale — l'ingegno critico e battagliero di Abelardo si rivelò più abile a demolire le posizioni antagoniste, che a costruire; la sua vita irrequieta fu una continua, sfibrante battaglia contro avversari e nemici, che usarono contro di lui tutte le armi, lecite ed illecite.

Maturo per l'insegnamento, Abelardo fondò a Parigi una scuola di dialettica e di teologia, che fece accorrere a lui torme di discepoli da tutte le parti della Francia. Ricco di una eloquenza precisa e tagliente, con la quale confutò e mise a tacere i suoi stessi maestri, forte di una eccezionale potenza dialettica, che lo rendeva invincibile nei dibattiti, Abelardo svolse il suo insegnamento tra dispute clamorose e polemiche violente che gli diedero prestissimo uno straordinario successo. La fama che ne seguì, gli procurò un posto ambito nella scuola episcopale di Notre-Dame e gli aprì le porte dei salotti della Parigi bene; e non solo quelli…

Ubriacato dal successo e dotato di una grande prestanza fisica, come testimonia Eloisa — la donna che più di tutti lo conobbe nella veste fisica, oltre che intellettuale — Abelardo si diede ad una vita scapestrata e dissoluta, in netto contrasto con la spiritualità del suo insegnamento, che gli meritò - nel tempo della fortuna avversa - l'accorato rimprovero del suo amico Folco, priore di Deuil, in una lettera che illustra un particolare aspetto del suo variegato carattere, dal genio alla lussuria: una peculiare dimensione del personaggio e del mondo in cui viveva. “È meglio - scrive Folco - che io tralasci di parlare della prima origine della tua disgrazia, cioè del tuo amore per le donne...Del danaro che guadagnavi con le tue lezioni e tutto quello che ti avanzava dalle necessità quotidiane, lo spendevi in bagordi. La rapacità avida delle meretrici ti portava via tutto e lo prova la tua estrema povertà”.

L'amore per le donne... Ma la vera origine delle disgrazie di Abelardo, la più drammatica, quella che segnò il destino di due esseri eccezionali, fu il suo incontro con Eloisa, la bellissima e colta diciassettenne, nipote del gretto canonico Fulberto. Sono gli anni dell'insegnamento a Notre-Dame: nel 1118, Abelardo ha trentanove anni, un fisico atletico e un fascino straordinario: la sua fama è alle stelle. Eloisa, orfana di ambedue i genitori, ospite del monastero di Argenteuil, è nota anche lei per la sua intelligenza e per la sua cultura, in tutta Parigi: conosce il latino, il greco e l'ebraico, oltre la grammatica, la filosofia, la dialettica e la teosofia3.
Fulberto, avaro e taccagno, offrì ad Abelardo vitto e alloggio nella sua casa, in cambio delle sue lezioni alla nipote. Abelardo, privo di mezzi per la vita licenziosa che conduceva, accettò volentieri, prima ancora di fare la conoscenza dell'allieva.
Il primo incontro tra i due fu, per tutti e due, il classico e fatale colpo di fulmine.
Abelardo, nella piena maturità della sua giovinezza, aureolata di bellezza e di fascino, rimase letteralmente incantato — lui, a cui le donne non avevano mai opposto un rifiuto — da una adolescente in cui la bellezza fisica si associava all'intelligenza, e la cultura alla grazia.
Nel rapporto tra uomo e donna, gli uomini di Chiesa, appellandosi alla Patristica, tornavano col pensiero — come, purtroppo, ancora oggi — alla coppia primordiale: a Eva che, sedotta da Satana, aveva a sua volta sedotto Adamo. Al perché — che gli ponevano i suoi allievi — Adamo si era lasciato sedurre da Eva, Abelardo rispondeva: «Perché l'amava».

Nella sua autobiografia, Abelardo confessa che egli, a Parigi, cantava il suo amore per Eloisa in poesie che, forse, avevano anche un contenuto erotico e sensuale; forse, perché tutte le canzoni di Abelardo sono andate perdute. In ogni caso, è certo che Abelardo — che, ricordiamolo, non aveva ancora indossato il saio monastico — non era il solo ad inneggiare all'amore profano, in un ambiente di intellettuali infatuati dall’Ars amandi di Ovidio e che, nel Cantico dei Cantici, trovavano ampia materia di meditazioni. Le poesie d'amore, che ci restano di quel tempo, cantavano le tappe passionali successive che, dallo scambio degli sguardi alle parole e dalle parole alle carezze, preparavano l'inevitabile attacco al Castello di Venere4.

”Che più? - ricorda Abelardo -. Eravamo uniti di casa; lo fummo ben presto di cuore. Con il pretesto dello studio pensavamo soltanto al nostro amore, e le cure scolastiche ci offrivano quella solitudine che è così cara agli amanti. Aprivamo i libri, ma erano parole d'amore, quelle che ci venivano alle labbra: erano anzi più baci che parole; le mie mani correvano più alle carezze che ai libri; i miei occhi leggevano piuttosto l'amore nei suoi, che non le parole nel testo. Insomma, il nostro amore conobbe tutti i gradi, conobbe tutti i capricci della passione”.
La passione tra due amanti non è un sentimento che può passare inosservato a lungo; e tanto meno agli occhi attenti di un Fulberto che spiava i rapporti tra maestro ed allieva; rapporti che, più che nella cultura, si manifestarono nel fisico della nipote. La fine delle lezioni e la separazione dei due sospettati fu inevitabile; e Abelardo, oltre al bene amato, perdette il vitto e l'alloggio. Gli incontri tra i due dovettero limitarsi a quelle poche occasioni che, nella penombra discreta di una chiesa, offrivano i riti domenicali.
E, in una di queste rare occasioni, nel gesto di porgere l'acqua benedetta ad Eloisa, Abelardo si trovò in mano un biglietto con il quale la perduta amante gli confermava il suo amore e gli manifestava l'indicibile gioia di aspettare un figlio.
Per evitare il pericolo di indesiderate sorprese, Abelardo convinse Eloisa a fuggire, in abito da monaca, dalla casa dello zio, verso un precario rifugio di Palais. E a Palais nacque il figlio a cui la sofisticata cultura di Eloisa volle imporre il nome di Astrolabio, un nome che voleva essere un augurio rivolto al neonato «perché cogliesse le stelle»5. Nato Astrolabio, Abelardo riportò Eloisa a Parigi, con l'onesta intenzione di sposarla, sia pure segretamente, per non danneggiare la sua fama di maestro. Ma…
In un mondo in cui era ancora dubbio se la donna avesse un'anima; in cui l'amore cortese — carnale e spirituale — esisteva solo al di fuori del matrimonio, sull'esempio di Tristano ed Isotta, di Lancillotto e Ginevra; in questo mondo in cui i valori del sacramento rappresentavano un ostacolo al libero amore; in questo mondo medievale, l'istituto del matrimonio era del tutto screditato. E fu Eloisa ad opporre il suo rifiuto al matrimonio — occulto o palese — che Abelardo aveva promesso a Fulberto, in cambio della sua benedizione.

Quando Eloisa, molti anni dopo, leggerà la Historia calamitatum mearum (che Abelardo finì di scrivere nel 1134), non muterà il suo giudizio sul matrimonio. E, nella sua prima lettera ad Abelardo, riandando con la mente al tempo lontano — ancora vivo, nell'animo, con la forza dolorosa del rimpianto — scriverà:
”Chiamo Dio a testimone, nient' altro io cercai in te, se non te stesso. Tu solo desiderai e volli; non le tue sostanze, non la dote nuziale. Soffocai i miei desideri e la mia volontà, per realizzare i tuoi desideri e far valere la tua volontà. E benché il nome di moglie sia più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica e quello di amante. Lo giuro: se Augusto, signore dell'universo, avesse voluto farmi sua sposa ed imperatrice del mondo, mi sarebbe sembrata cosa più cara e più degna di essere chiamata tua amante al tuo fianco, che imperatrice sul soglio”.
Per Eloisa rappresentava una colpa sposare un uomo dedicato allo studio, non quella di continuare ad esserne l'amante, in un amore disinteressato e fine a se stesso. Coerente con le sue idee, Eloisa era contraria ad un matrimonio che, oltretutto, avrebbe oscurato la fama di Abelardo e ne avrebbe inceppato lo studio. Ma Abelardo rimase fermo nel suo proposito: per non danneggiare la sua fama - come voleva Eloisa e come, forse più, voleva lui - il matrimonio venne celebrato nella clandestinità. Eloisa, nel rispetto di un impegno al silenzio su un matrimonio che avrebbe danneggiato o distrutto la gloria di Abelardo, giurò allo zio che non era avvenuto. Ma Fulberto, al corrente del matrimonio e avido di proclamare l'avvenuta riparazione, lo sbandierò in pubblico "come un vessillo strappato al nemico". Nel tentativo di riparare al danno, Eloisa, in accordo con l'adorato amante-marito, rientrò nel monastero della sua infanzia innocente: Argenteuil. Fulberto ritenne che la fuga dal mondo della nipote fosse un artificio di Abelardo, per sbarazzare la propria fama dall'ingombro di una moglie e maturò una vendetta atroce. Due suoi sicari, comprati con l'oro, si introdussero nell'abitazione di Abelardo e lo evirarono nel silenzio della notte e del sonno6.

La vicenda di Abelardo ed Eloisa ha una stretta analogia con quella di una monaca di Wotton. «Questa — scrive un cronista del tempo — viveva in uno dei monasteri dell'Ordine di san Gilberto, intorno al 1150. Era chiusa nel monastero dall'età di quattro anni, ma non si era mai adattata alla clausura. Si innamorò di un giovane canonico, cui era stata affidata l'assistenza spirituale delle monache, e ne restò incinta. Le sorelle esacerbate, offese nel loro onore collettivo, tesero un tranello all'amante prete, che aveva tentato di darsi alla fuga; lo catturarono e, dinanzi all'intera comunità, costrinsero la colpevole ad evirare il complice, prima di essere rinchiusa in una segreta del convento».
A questo punto della cronaca, la leggenda si sostituisce alla storia, per ricavarne una dubbia morale. «Grazie ad un miracolo — continua il pio cronista — ritornò la pace nel monastero. Con le catene ai piedi, la giovane era sul punto di partorire, quando due angeli discesero a liberarla dal frutto del peccato». Rimane il dubbio se i due angeli ostetrici aiutarono la peccatrice a partorire o a farla abortire7.

Ritornando ad Abelardo, il rumore che si levò dal fatto lo sorprese al sommo della celebrità e lo costrinse a seppellirsi, pieno di vergogna, nel monastero di San Dionigi, dove vestì il saio di monaco. Per suo espresso volere, anche Eloisa sacrificò la sua giovinezza, prendendo il velo di monaca, nell'accogliente monastero di Argenteuil.
Da Parigi affluirono al convento di San Dionigi vecchi e nuovi discepoli, che chiesero ad Abelardo di tornare ad insegnare; e Abelardo, la cui sciagura aveva fatto piangere i suoi estimatori, annegando nello studio e nell’insegnamento il trauma fisico, psichico e morale, aprì una scuola nel piccolo monastero di Saint-Ayoul, dove — senza abbandonare la filosofia — si dedicò di preferenza alla teologia. E tra una lezione e l'altra, presso la scuola di San Dionigi, Abelardo trovò il tempo di portare a termine il Tractatus de Unitate et Trinitate divina, che attirò su Abelardo l'attenzione del mondo cattolico, alimentò la critica e la censura dell'ambiente monastico e provocò, nel 1121, la denunzia, come eretico, al concilio di Soissons. L'ortodossia dei Padri conciliari non perdonò: Abelardo fu condannato a dare alle fiamme il libro incriminato, a recitare pubblicamente il simbolo atanasiano8 e ad essere rinchiuso nel convento di San Medardo.

Dimesso da San Medardo, Abelardo non ritornò a San Dionigi, ma si rifugiò nelle terre di Troyes, seguito da uno stuolo di discepoli, per i quali edificò «con le sue mani, con canne e stoppie» la casa del Paracleto9, destinata a diventare sede di una famosa scuola. Abelardo, maestro riconosciuto e quasi venerato, insegnò dialettica, scolastica, teologia, ascetica, esegetica e apologetica. L'istituzione del Paracleto e l'insegnamento di discipline nuove come metodo, attirarono di nuovo l'attenzione dei suoi implacabili nemici, tra cui — astioso ed inflessibile — Bernardo di Chiaravalle. Pietro il Venerabile, abate di Cluny, ferocemente avversato da Bernardo di Chiaravalle10, esortò Abelardo a rifugiarsi nel monastero di Cluny e a dare un addio alla sua filosofia; ma Abelardo, pur cosciente dei rischi cui andava incontro, preferì continuare nel suo programma di insegnamento.
Nel 1126, Abelardo venne eletto abate di Saint-Gyldas; elezione voluta certamente dai suoi nemici. A fornirne una prova lo attestano le insidie che i monaci subornati misero in atto, per liberarsi di lui, sino ad attentare alla sua vita, col veleno e col pugnale. In questo ambiente ostile — tra minacce, offese ed attentati —, Abelardo nel 1129 venne a conoscenza che Eloisa e le sue monache, per motivi rimasti oscuri, erano state cacciate via dal monastero di Argenteuil e che, praticamente, erano in mezzo alla strada.

Abelardo superò l'avvilimento che sempre provoca una serie continua di sventure, e cedette il rifugio del Paracleto all'antica amante e alle sue consorelle. Al Paracleto fece ritorno anche lui, sia per sfuggire ad un reale pericolo di morte violenta e sia per occuparsi dell'assistenza materiale e spirituale delle monache che vi aveva accolte. E, dopo dieci anni di dolorosa separazione, Abelardo rivide la sua antica e mai dimenticata fiamma. "Dettata da una passione non spenta, da un incantamento che la separazione non aveva rotto, nè la tragedia, nè la professione monastica, eromperà di quel tempo, la memoria affollata di immagini di Eloisa”11.
Di quel tempo, lontano negli anni, ma vivo e accorato nel ricordo, Eloisa ha un rimpianto privo di rassegnazione, che trova mesta eco in una delle sue lettere più espressive. «Qual re, qual filosofo eguagliava la tua fama? Chi non correva a guardarti, chi non ti veniva dietro quando, il viso alto e gli occhi ridenti, passavi per le vie? Quale sposa, quale vergine non ti desiderava, non ardeva di passione al solo vederti? Due erano i pregi che ti rendevano subito caro a qualunque donna: la grazia dei tuoi versi e il fascino dei tuoi canti. Tu componevi quei canti d'amore che, per la dolcezza delle parole e la squisita bellezza del ritmo musicale, diffusero il tuo nome sulla bocca di tutti. Per questo, ogni donna sospirava il tuo amore. La maggior parte di quei canti celebrava il nostro amore e il mio nome risuonava in ogni via, in ogni casa: me plateae omnes, me domus singulae resonabant; e tutte le donne sentivano di invidiarmi. E qual dote dell'anima e del corpo adornava, allora, la tua gioventù!»12.
Eloisa, badessa di un gruppo di esiliate, non raggiungeva allora neppure i trent'anni, l'età in cui l'amore tocca le note più alte e vibranti della passione. Nelle lettere indirizzate ad Abelardo freme, non repressa, tutta intera la sua esaltazione delirante per l'uomo che l'aveva fatta donna e madre. Amante, madre e sposa, Eloisa è ora a capo di una comunità di spose di Cristo e, torturata nell'animo, continua ad essere tutto ciò che non ha scelto di essere: moglie di Abelardo e sposa di Cristo. Con Abelardo «mio signore, anzi padre; mio sposo, anzi fratello; tua ancella, anzi figlia; tua sposa, anzi amante», scambia — al di là della lettura della Historia — un seguito di lettere di tale grandezza che si è dubitato a lungo che non fossero sue e che fossero state, invece, scritte da Abelardo stesso. Ma la critica, antica e moderna, ha dovuto convenire — e per lo stile e per la violenza tutta femminile dei sentimenti espressi — che sono indubitabilmente opera appassionata di Eloisa.

Di Abelardo, celebri nella storia delle scritture epistolari, sono le lettere da lui indirizzate alla fedelissima Eloisa, che costituiscono, insieme alle risposte della giovane innamorata, il primo e veramente mirabile epistolario d'amore. In esso, alla compassata freddezza delle lettere di Abelardo — il quale confessa che non riesce a dimenticare di essere stato, prima che l'amante, il precettore di Eloisa — fa riscontro la sensibilità appassionata e vibrante di lei, che mal sa nascondere, sotto le tracce della sua educazione finemente intellettualistica, l'ardente passione di donna che la distanza, le sventure e il chiostro non sono riusciti ad estinguere13.
«Il mio amore per te è divenuto delirio — scrive Eloisa all'uomo che non è più maschio — a tal punto che io ti ho tolto a me stessa, te che sopra tutti amavo, senza speranza di poterti mai più riavere... Quando la preghiera sgorga dalle labbra, innumeri fantasmi si presentano alla mia anima, l'avvincono e la rendono più attenta a loro che alla preghiera. E mentre dovrei dolermi delle mie colpe passate, rimpiango quelle che non commisi»14.

Ci sono espressi, nelle lettere di Eloisa ad Abelardo, l'intensità della passione, nel rifiuto del pudore, l'ebbrezza dei ricordi e la vertigine dei sensi, il rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato. In un secolo in cui le donne non parlavano della loro vita e dei loro sentimenti, Eloisa rappresenta una rarissima, ammaliante eccezione. Eloisa: la donna che molti uomini del nostro secolo - pur adusati ad una libertà sessuale allora sconosciuta o dissimulata - infoiati in un mondo di innumerevoli tentazioni e di facili appagamenti, vorrebbero incontrare una sola volta, e per sempre, in tutta una vita: la donna da amare e da cui essere amati, con lo stesso amore.
Per Eloisa il paradiso è fatto di castità e non d'amore. Con le lettere che documentano una lunga tortura, non alleviata o dissolta dalla rassegnazione, Eloisa tocca i vertici di una oratoria non inquinata da retorica, che riesce a dare di lei, in quanto modello inconsueto di donna medievale, una immagine nuova ed inquietante. Nessun’altra donna, prima di lei, ha narrato la propria passione e il proprio tormento in termini di opera d’arte. Questa piccola monaca senza vocazione - la prima e la più grande di tutti i discepoli di Abelardo - ha compreso e condiviso il tratto nuovo ed essenziale della dottrina di Abelardo. In una delle sue lettere, Eloisa condensa lo spirito dell'insegnamento del suo maestro in una stupenda allegoria: "Il testo sacro, se non è compreso, è come uno specchio posto davanti agli occhi di un cieco”.

”La rivoluzione di Pietro Abelardo - commenta ed illustra Franco Alessio - è espressa esattamente in questa immagine penetrante. La comprensione del testo sacro, di cui parla Eloisa, è al centro della nuova costruzione teologica di Abelardo. Ciò che domina è l’intelligenza, che si stacca sino a contrapporsi allo spirito; l’intelligenza, cioè la scienza. Abelardo proclama che la fede deriva dall'intelligenza e non l'intelligenza dalla fede. Abelardo ha voltato le spalle alla sancta simplicitas in cui si rinserrava nel chiostro la teologia dei monaci, elaborata in funzione di una esperienza monastica. I miei discepoli - annotava Abelardo - cercano anche nel campo teologico argomenti umani e filosofici, e vogliono più ragionamenti che parole, sostenendo a ragione che è stolto pronunciare delle parole delle quali non si intende il significato, e che è ridicolo predicare agli altri ciò che nè chi predica, nè chi ascolta, riesce a capire”15.

Abelardo separa i testi del Vecchio e del Nuovo Testamento, che vanno letti con l'obbligo di credere, dai testi patristici, che vanno letti con libertà di giudizio. La ricerca, intesa come interrogazione incessante, muove dal dubbio perchè soltanto il dubbio promuove la ricerca e solo la ricerca conduce alla verità. La ricerca di Abelardo è una ricerca razionalistica che opera sui testi tradizionali, per cercare in essi liberamente la verità che contengono. "Qui è senza dubbio il motivo del fascino che la personalità di Abelardo esercitò sui suoi contemporanei, e dell'efficacia del suo insegnamento sulla scolastica. Abelardo è una di quelle personalità che più ha sentito e vissuto l'esigenza e il valore della ricerca”16.
Abelardo fece entrare la filosofia e la ragione nell'ambito della teologia con tale efficacia suggestiva e tale libertà svincolata da servitù dogmatica, che apparve come un apostolo ai suoi discepoli e come eretico ai suoi avversari. La forma che egli scelse, come più appropriata, fu la dialettica, l’arte cioè della disputa e della controversia, lo spirito della quale portava a non riconoscere altra autorità che quella della ragione stessa.

Abelardo, tuttavia, non può essere confuso con quanti, nel tardo Medioevo, propagandarono dottrine eretiche con l'intendimento di sostituirle a quelle stabilite dal dogma; fu, quella di Abelardo, una voce solitaria, audace e temeraria, che sostenne come prevalente l'autorità dei testi biblici ed evangelici, sulle interpretazioni patristiche, con l'intento di ricondurre il dogma alle sue fonti primitive.
Abelardo voleva soltanto rendere la fede più intellegibile, grazie alla sua dialettica; la differenza nella concezione dei rapporti tra fede e filosofia si manifesta nella ideologia di Abelardo e nella sua controversia con Bernardo di Chiaravalle. Abelardo è un temperamento più combattivo che meditativo; a proposito della Trinità, egli scrive: ”Noi non promettiamo di insegnare la verità, obiettivo che pensiamo non possa essere raggiunto nè da noi, nè da alcun altro mortale, ma di insegnare almeno qualcosa di verosimile che si apparenti alla ragione umana e non sia contraria alla fede”.

Abelardo cercò una soluzione nuova ed originale al grande problema del Medioevo sulla fede, ma non nutrì mai l'ambizione di creare una sua filosofia. Il preteso razionalismo di Abelardo è un’invenzione moderna; basterebbe a dimostrarlo una lettera che, sull’argomento, indirizzò ad Eloisa: "Non voglio essere filosofo, se per esserlo bisogna resistere a san Paolo; non voglio essere Aristotele, se devo separarmi dal Cristo”17.
Abelardo esercitò sullo sviluppo della filosofia medievale una influenza determinante, dovuta sopratutto al suo fascino di maestro, oltre che allo spessore della sua cultura e alla logica lucida e serrata della sua dialettica. La ricerca filosofica di Abelardo non fu soltanto un mezzo per intendere la verità rivelata, non fu un semplice complemento alla teologia, ma ebbe un significato e un valore, fini a se stessi: il significato e il valore dell'uomo come tale.
Abelardo - scrive Nicola Abbagnano - è la prima grande affermazione medievale del valore umano della ricerca. Questa figura che neppure la tradizione medievale ha potuto ridurre allo schema stereotipato del sapiente o del santo; quest'uomo che ha peccato e sofferto, ed ha posto l'intero significato della sua vita nella ricerca; questo maestro geniale, che ha fatto nei secoli la fortuna e la fama della scuola di Parigi, incarna - per la prima volta, nel Medioevo - la filosofia nella sua libertà e nel suo significato umano”18.

La lotta tra Abelardo e san Bernardo, che terminò con la condanna del primo, nel Concilio di Soissons del 1121 e nel Concilio di Sens del 1141, serve a meglio farci comprendere lo spirito medievale. Uomini come san Bernardo "se trovano posto nella storia della filosofia è contro la loro stessa volontà, perchè non l'hanno mai amata”19.
Il misticismo, in san Bernardo, è legato ad una ardente difesa della fede e delle istituzioni della Chiesa. L'una e le altre gli apparvero minacciate dalla dottrina di Abelardo, con la sua confusione tra il dogma e la filosofia. In una lettera diretta alla Curia e al pontefice, nel 1140, san Bernardo parifica il magistero di Abelardo a ferite inferte alla fede, ad ingiurie al Cristo, ad insulti e a disprezzo ai Padri della Chiesa. E tutto ciò - conclude - "è uno scandalo per il presente ed un pericolo per l'avvenire. Ci si fa beffe della fede degli umili; si mettono in luce i segreti divini; si trattano temerariamente questioni che interessano i soggetti più elevati e si rimprovera ai Padri di aver detto che bisognava lasciare tali questioni nel letargo, piuttosto che risolverle...In tal modo, l’intelligenza umana usurpa tutto per sè, nulla lasciando alla fede”20.
Nella lettera indirizzata a papa Innocenzo II, san Bernardo si dichiara certo che Abelardo non soddisfa a nessuna delle esigenze richieste a chi si permette di discutere di dogmi e di morale. "Abelardo - scrive Bernardo - discute delle verità e dei vizi senza avere moralità; dei sacramenti, senza avere fede; del mistero della Santa Trinità, senza semplicità, nè sobrietà. Deridendo i dottori della Chiesa, egli colma di elogi i filosofi e antepone le loro invenzioni e le proprie novità alla dottrina e alla fede dei Padri della Chiesa”21.

I fermenti critici che animavano tutta la speculazione di Abelardo erano in accordo col fermento che pervadeva la società del suo tempo, protesa nel campo religioso, come in quello etico-politico, alla conquista di una più ampia libertà. La metodica di Abelardo, in campo teologico, era in netta opposizione al pensiero e alla concezione di Bernardo di Chiaravalle, secondo cui "si cerca più degnamente e si trova più facilmente con la preghiera che con la disputa". È sulla diversa ed opposta concezione dottrinale che esplode il contrasto di fondo con il monachesimo e che porge a Bernardo la possibilità e l'occasione di criticare violentemente un mondo nascente, nettamente diverso da quello in cui il monachesimo "frutto maturo dell'età feudale" è nato e vissuto. Bernardo di Chiaravalle, doctor mellifluus, fu il tipico oppositore della ricerca scolastica e l'esaltatore della vita mistica, in contrasto stridente con la sua terrena azione politica.
Agli occhi di san Bernardo, la dottrina di Abelardo rappresentava una errata soluzione del grande problema medievale. "Cercando l'intelligenza - affermava il futuro santo - Abelardo ha dimenticato la fede, che di tale ricerca è il punto di partenza e la legge". Questo, l’oggetto della denunzia di Bernardo al Concilio che - convocato da Innocenzo II - vide riuniti a Sens i vescovi e gli abati delle province di Sens e di Reims, con la partecipazione di re Luigi VII di Francia.

Assente al Concilio fu l’accusatore, malgrado l'espresso invito dell'arcivescovo di Sens a presenziare la riunione e a controbattere, con la sua dottrina, le tesi di Abelardo. "Ho giudicato indegno - si giustificò presso il papa - di discutere, con meschini ragionamenti umani, la dottrina della fede fondata su verità certe e solide. Gli scritti di Abelardo bastano ad accusarlo". La verità, cruda e priva di orpelli agiografici, fu che san Bernardo non si ritenne in grado di affrontare un avversario del calibro di Abelardo, in una disputa che lo avrebbe certamente visto sconfitto e che avrebbe compromesso il già predisposto giudizio dei padri conciliari.
Com'era facilmente prevedibile, gli alti prelati - edotti da san Bernardo, sugli errori di Abelardo - condannarono le dottrine denunziate, senza neppure accertarne la paternità. Eppure, anche stavolta, Abelardo si sottomise al giudizio del Concilio, pur dichiarando di volersi appellare al papa. Ma l'abate di Chiaravalle prevenne il ricorso di Abelardo e prospettò al papa i pericoli che correva la fede; e il papa Innocenzo II - che a Bernardo doveva il trono di S.Pietro - confermò la condanna emessa dal Concilio di Sens. Nella stessa occasione, su analoga decisione del Concilio, condannò lo scisma 'popolare' di Arnaldo da Brescia22.
Colpito da scomunica, mentre era in viaggio verso Roma, Abelardo si fermò a Cluny, sotto la protezione del grande abate Pietro il Venerabile. Protezione, a favore di un ritenuto eretico, che l'abate di Cluny si poteva permettere, in opposizione a Bernardo di Chiaravalle, e allo stesso papa Innocenzo II. L'Ordine cluniacense, nel 1141, aveva esteso il suo dominio, accresciuto la sua potenza23 e la sua ricchezza. A Cluny tutta la cristianità guardava come ad un centro di pietà e di cultura; e i papi ne cercavano l'appoggio e il consiglio.

Meno di un anno dopo, il 12 aprile del 1142, a 63 anni, Abelardo chiuse gli occhi per sempre, nell’abbazia di Saint Marcel sur Saone. Dal Venerabile, il suo corpo fu recato di nascosto ad Eloisa, e sepolto nell'oratorio del Paracleto. Accanto ad esso, ventidue anni dopo, riposò in pace anche la spoglia di Eloisa.
La raffica rivoluzionaria del 1790 violò la quiete delle loro tombe; e solo nel 1817 i loro due corpi - uniti nella morte, più che non lo fossero stati nella vita - trovarono riposo, come in un tegurium a doppio loculo, nello stupendo mausoleo del cimitero di Pére Lachaise di Parigi.

Quello di Abelardo e di Eloisa fu senza dubbio un destino più tragico di quello di Romeo e Giulietta perché - a mio giudizio - vivere, soffrendo in quelle condizioni di spirito e di corpo, fu più crudele della morte.



ARNALDO DA BRESCIA

Discepolo di Abelardo, storicamente il più famoso, fu Arnaldo da Brescia. Devoto e fedele seguace di Abelardo, ne condivise umanamente le disavventure e, dottrinalmente, lo seguì con una fede più tenace e una fermezza di carattere più forti di quelle del maestro. In Arnaldo, infatti, era più accentuato il fervore apostolico che lo chiamava all'azione, che non lo spirito di Abelardo, teso alla sottile ricerca e alla raffinata disquisizione.
Puro e irreprensibile nella vita — nettamente diverso, in questo, dal primo Abelardo — gliene diedero atto anche gli avversari che ne combattevano le dottrine. Lo stesso Bernardo di Chiaravalle non ebbe difficoltà ad ammetterlo: «Fosse la sua dottrina altrettanto buona, quanto è austera la sua vita! È un uomo che non mangia e non beve; solo che, come il diavolo, ha fame e sete del sangue dell’anima»24.

Più che la sua dottrina in materia teologica, furono le sue liberali idee politiche e le sue violenti critiche alla casta sacerdotale ad attirargli l'avversione della Curia. L'eloquenza di Arnaldo non si volgeva, infatti, contro i dogmi, ma contro la disciplina dei mestatori della Chiesa, attaccando con veemenza il papato, per la sua ingerenza politica, negando ai sacerdoti e ai monaci il diritto di possedere beni materiali, e denunziando con asprezza la vita mondana degli ecclesiastici. La battaglia intrapresa contro la generale corruzione della Chiesa gli fruttarono, nel 1139, il biasimo del pontefice Innocenzo II, la sua condanna al silenzio e l'imposizione a lasciare l'Italia.
Rifugiatosi in Francia, nel momento in cui più violenta infieriva la contesa tra Bernardo di Chiaravalle e Abelardo, Arnaldo prese a viso aperto le difese di quest'ultimo e, nel concilio di Sens del 1141, con un coraggio che politicamente rasentava l'incoscienza, fu apertamente strenuo difensore del suo maestro, in contrapposizione con Bernardo di Chiaravalle che — per questo, oltre che per il resto — divenne suo mortale nemico. Il concilio, infatti, subornato dal futuro santo, lo accomunò alla condanna inflitta ad Abelardo. Ma, contrariamente al suo maestro, che rifiutò di difendersi — seppure deciso a ricorrere al papa — Arnaldo continuò la sua battaglia in seno alla comunità di studenti che, di Abelardo, erano stati alunni e discepoli.

Nella scuola, che aprì sulla collina di Santa Genoveffa, Arnaldo — rifacendosi alle Sacre Scritture — continuò a scagliare i suoi strali polemici contro la vita mondana del clero e la cupidigia dei vescovi. La riforma predicata da Arnaldo si basava sulla povertà della Chiesa, quale era stata formulata e praticata da Cristo e dai suoi discepoli. A giudizio obiettivo di Arnaldo, gli ecclesiastici che non vivevano in povertà assoluta, non potevano essere considerati veri seguaci di Cristo, né costituire la sua Chiesa. I vescovi, pertanto, non erano veri vescovi e non avevano diritto all'ubbidienza dei fedeli. Lo stesso papa, se non viveva secondo la norma evangelica, rinunciando al possesso dei beni temporali, non poteva essere ritenuto e ubbidito come un vero rappresentante di Cristo in terra.

Particolarmente combattivo e provocatorio, Arnaldo fu verso Bernardo di Chiaravalle, al quale rinfacciava le velleità politiche e l'avversione che nutriva e manifestava contro chi non condivideva i suoi programmi o contro chi emergeva per meriti filosofici o letterari. La battaglia combattuta contro la Curia e, più, contro un Bernardo che, in quel tempestoso periodo, dominava la scena politica e religiosa, non poteva concludersi che con la sconfitta di Arnaldo e con la sua seconda condanna. Bernardo, infatti, ottenne dal re Luigi VII che Arnaldo venisse espulso dalla Francia.
Arnaldo si rifugiò in Svizzera; ma le ostilità suscitategli dalla sua attività riformatrice e l'implacabile persecuzione di Bernardo, lo costrinsero, nel 1142, ad abbandonare Zurigo ed a rifugiarsi presso il cardinale Guido del Castello, legato papale per la Boemia e la Moravia, che gli fu amico e protettore, sordo alle insistenti e minacciose esortazioni di Bernardo perchè abbandonasse Arnaldo al suo destino. Il cardinale, in questa controversia che poteva costargli cara, ebbe dalla sua parte l'amicizia di papa Celestino II, antico discepolo di Abelardo, che era successo ad Innocenzo II.

Per non portare alle lunghe una storia drammaticamente avvincente, è tempo di arrivare alla conclusione. Nel 1154, le truppe di Federico Barbarossa si impadronirono di Roma che, spronata dalle ardenti esortazioni popolari di Arnaldo da Brescia, si era eretta a repubblica, ripristinando le antiche magistrature e costringendo papa Eugenio III - che aveva scomunicato il tribuno - a riparare in Francia.
Nemico delle libertà comunali e indifferente alla sorte di un novatore religioso, Federico si affrettò ad offrire al papa la testa di Arnaldo, in cambio della corona imperiale. Arnaldo fu catturato e consegnato al prefetto pontificio che, su espresso ordine del pontefice Adriano IV, successo ad Eugenio IV, lo condannò a morte.
Nel giugno del 1155, Arnaldo fu impiccato e poi arso. Le sue ceneri, per impedire che il popolo se ne impadronisse e le venerasse come reliquie di un santo, furono gettate nel Tevere.


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(1) F. Alessio: Abelardo , in IP, vol. IV, p.422.

(2) Roscellino di Compiègne (1050-1125), pensatore dell'XI secolo, massimo rappresentante del nominalismo, l'atteggiamento filosofico contrapposto al realismo. Il nominalismo era l'atteggiamento medievale che negava agli oggetti della realtà ogni valore che andasse oltre quello rappresentato dai relativi segni verbali: i concetti che la mente adopera, ci danno solo una designazione della realtà e non la realtà stessa

(3) Nel corso del XII secolo fiorirono e si moltiplicarono le scuole urbane, frequentate da una massa di studenti maschi, avidi di sapere. Dovranno passare molti altri secoli, prima che alla scuola vengano ammesse le donne. Se, al tempo di Abelardo, ci sono donne che, in via del tutto eccezionale, sono dotate di cultura, come è il caso di Eloisa, il fenomeno va riportato aH'intemo di particolari mura domestiche o a particolari e rari monasteri. Cfr. P. L'Hermite- Leclerq: Le donne nell'ordine feudale, in SDOM, p. 264.

(4) Cfr.G.Duby : Il modello cortese, pp. 279 e 313.

(5) L'astrolabio era uno strumento per la determinazione della altezza del sole e delle stelle sull'orizzonte.

(6) Cfr. F. Alessio, op. cit., p.441. Gli esecutori dell'orrendo crimine furono scoperti e, a loro volta, evirati ed accecati. Fulberto fu condannato alla perdita di tutti i suoi beni.

(7) Cfr. P. L'Hermite-Leclercq: op.cit., p. 279.

(8) Il simbolo atanasiano è il Credo nella versione attribuita a sant'Atanasio, che comincia con le parole "Quicumque vult", diverso cioè, nella formulazione, da quello che si recita nella Messa secondo il simbolo niceno-costantinopolitano. Atanasio (293-373) è ritenuto il campione della fede cattolica e il suo nome è il simbolo dell'ortodossia trinitaria.

(9) Paracleto , termine greco passato in latino e, poi,in italiano, è usato come sinonimo di "Spirito Santo”.

(10) Sono storicamente note le polemiche tra Bernardo di Chiaravalle e Pietro Maurizio di Mont- boissier, detto il Venerabile. La riforma benedettina, che costituì l'ordine cistercense, sorse come reazione all'agiatezza e a certe delicate abitudini che si erano introdotte a Cluny, e persino contro la magnificenza e lo splendore delle chiese, delle opere d'arte postevi per ornamento, e dell'arredo per il culto. Bernardo volle escluse dalle sue chiese le pitture, le sculture e qualunque rappresentazione figurata, quasi un rigurgito iconoclastico, che rese freddi e nudi gli ambienti della preghiera. Nei monasteri cistercensi si conduceva una vita grama; Bernardo aveva ripristinato in tutta la sua severità la regola benedettina dei tempi eroici: povertà assoluta, dieta strettamente vegetariana, lavoro manuale nei campi, astinenza, silenzio e analfabetismo. Cfr. G. Duby: San Bernardo e l'arte cistercense, passim; e I. Montanelli e R. Gervaso: L'Italia dei Comuni, p. 348.

(11) F. Alessio: Abelardo, op.cit., p.439.

(12) Epistola II, in Patrologia Latina, vo1.178, col.185.

(13) Cfr.G. Natali, in EIT, vol. XIV, p.108, s.v. Abelardo.

(14) La corrispondenza tra Eloisa ed Abelardo, in "Epistolario completo", nella traduzione di L. Ottaviano. Palermo, 1934.

(15) F. Alessio; op.cit., pp. 443-44.

(16) N. Abbagnano : Storia della filosofia, vol. I, p.340.

(17) Cfr. E. Bréhier: La filosofia del Medioevo, p. 167.

(18) N. Abbagnano : Storia della filosofia,vol. I, p.338.

(19) E. Gilson: La philosophie au Moyen Age, p.144.

(20) E. Bréhier: op.cit., p.181. Contro Abelardo, Bernardo di Chiaravalle scrisse due trattati di grande importanza storica: "Contra quaedam capitula errorum Abelardi" e "Capitula haeresum Petri Abelardi", pubblicati dal Migne, in Patrologia Latina, vol 1. 182- 185.

(21) E.Bréhier: op.cit., p.182. Sul duello filosofico e dottrinale tra san Bernardo e Abelardo, cfr., oltre il Bréhier , P. Ragnisco: Pietro Abelardo e san Bernardo di Chiaravalle. In "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, anno VIII - 1905, passim.

(22) Cfr. N. Fabbretti: I vescovi di Roma, p.176.

(23) Da Cluny dipendevano 314 case religiose , con migliaia di monaci, di cui 460 nella sola casa madre.

(24) Cfr. U. Balzani: L'Italia tra il 1125 e il 1152. In SSM. vol. IV, p. 813.


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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE, OLTRE QUELLA RIPORTATA NEL TESTO:

P. Abelardo: De Unitate et Trinitate divina. Ed. Stöze, Friburgo in Breisgau, 1891.

P. Abelardo: Conosci te stesso. A cura di M. del Pra, Vicenza 1941.

P. Abelardo: Epistolario completo. Traduzione e cura di C. Ottaviano, Palermo 1934.

M. De Gandillac: Oevres choisies d'Abelard. Parigi 1945.

C. Ottaviano: Abelardo: la vita, le opere, il pensiero. Roma 1931.

E. Gilson: Eloisa e Abelardo. Ed. Einaudi, Torino 1950.

D. De Robertis: Il senso della propria storia ritrovato attarverso i classici nella "Historia calamitatum mearum" di Abelardo. In "Maia", Roma 1964.

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